A … come addio - di Francesco Briganti

13.09.2013 08:16

Un addio, quali che ne siano le cause, ha sempre un che di traumatico per quanto possa essere atteso, per quanto possa in qualche modo, essere addirittura messo in conto. La letteratura, il mondo delle canzoni, quello del cinema, le favole stesse hanno fatto della separazione un filo conduttore di molte vicende raccontate ed è propria di questi giorni una probabile separazione tra due contendenti politici a tener il banco della cronaca quotidiana. Quando un addio è tra due persone la sua drammaticità può avere toni aulici oppure tristi e persino liberatori qualora avvenisse per intervenuti motivi di astio o disamore; comunque fosse sarebbe, però, stupido negare che la sensazione residua e di fondo resta identificabile in qualcosa di frammisto tra l’amaro, la nostalgia e, come nell’ultimo caso, un sottile senso di piacere; il tutto è compreso nell’insieme dell’incerto che filtra la visione del futuro dal più immediato al più lontano. Quando, invece, un addio riguarda il mondo del lavoro a tutte queste considerazioni, date anche le particolari condizioni di crisi esistente, si aggiunge quel picco di disperazione immediatamente susseguente e quel sentimento di paura che fa vacillare nelle proprie convinzioni, fa scemare la stima di sé stessi, rendendo il protagonista, che sia un licenziato, un esodato o un cassintegrato, una persona instabile, piena di dubbi,e pur se con una notevole esperienza titubante su quelli che sono i passi da seguire da quel momento in poi. Ognuna di queste sensazioni si acuisce ed incancrenisce il suo vulnus quando ad esere protagonista sia una persona non più giovane, non ancora vecchia e convinta ino a quel momento di essere, per sé e per gli altri, comunque ed indipendentemente dalla mansione svolta, qualcosa di importante. La cessazione di un amore, ma di più, molto di più, l’interruzione di un rapporto di lavoro possono essere, ciascuno per via diverse, causa di sviluppi in negativo che per alcuni, tra i più deboli o insicuri o insoddisfatti, sfociano a volte in una progressiva frustrante rinuncia ad una speranza nel domani ed alla fine di un percorso al tutto e, questo, in misura maggiore per quanti più siano i “ NO “ a cui si è andati incontro. La nostra società, quella del millantato successo ad ogni costo, quella della giovinezza rampante, quella del sogno americano impossibile in questo paese di “amicidegliamici”, delle raccomandazioni dello zio prete piuttosto che dell’onorevole compiacente, dell’imprenditore settario quando non razzista o discriminatore, dell meritocrazia più ignorata e vilipesa di ogni altra parte del mondo, quella infine della bellezza o della intelligenza pronta a prostituirsi pur di …, complica ed a volte rende impossibile la risalità o la conferma in una dignità lavorativa che sia soddisfacente e madre di una continuazione di vita anche e solo appena appena di sopravvivenza. E un dato amaro, ma vero: chi, quale ne sia la causa, perde oggi il lavoro, ha davanti a sé non una strada da percorrere fino al prossimo impiego, ma un deserto il cui orizzonte sembra sfuggirgli ed allontanarsi ad ogni passo in avanti si compia. Ebbene, da qualche giorno di questa schiera di italiani, di quelli che si trovano momentaneamente (sic!) a disposizione, faccio parte anche io e sto provando ognuna di quelle sensazioni sopra descritte. NO!, di certo non sono alla disperazione e non intendo arrivarci; lavoro e combatto in maniera autonoma e per conto terzi, esercito compreso, da quando avevo diciotto anni; ho fatto nella mia vita e della mia vita tutto ciò che mi è piaciuto viaggiando dall’arte di Ippocrate ai mestieri più umili e queto senza mai sentirmi degradato o meno importante di chiunque altro ed il mio motto è sempre stato “ NON SONO MIGLIORE DI NESSUNO, MA NESSUNO LO E’ DI ME” E QUESTO INDIPENDENTEMENTE DA QUALE FOSSE LA MANSIONE CHE SVOLGEVO. Ho sempre preteso di lavorare CON qualcuno e mai PER qualcuno e quando non vi erano condizioni di lavoro in contesto aziendale, una attività me la sono inventata e, assolti i doveri che le leggi di questo strano paese, teso più ad impedire che a facilitare, imponevano, mi sono messo in proprio ed ho continuato alla faccia del mondo stesso. Dunque, questo mio, sproloquio mattutino non è una confessione o una sorta di compartecipazione agli altri di un mio nuovo stato d’essere, ma vuole rappresentare, E’, decisamente E’ una esortazione a tutti coloro che per un motivo o per un altro si trovano nelle stesse condizioni: MAI e POI MAI, credersi incapaci di generare da soli ed in proprio il prosieguo della propria vita, perché in quanto uomini siamo dotati dell’unica ricchezza che a ciascuno di noi NESSUNO POPOTRA’ MAI PORTARE VIA se solo la difendiamo e per essa combattiamo: il CONNUBIO ESISTENTE TRA IL NOSTRO CERVELLO, LE NOSTRE MANI E LE NOSTRE GAMBE e per la vita di ognuno questo insieme e ciò che basta a dire al MONDO: “ FANCULO, IO CONTINUO E CE LA FARO’”. La resa è parola che non esiste nel nostro vocabolario!.