All’orizzonte il cielo cominciava a prendere colori più chiari - di Francesco Briganti

22.07.2013 19:12

Ho avuto, ieri, una lunga e pleonastica discussione con alcuni aderenti al M5S; il nocciolo della questione era imperniato sulla bontà del coerente rifiuto da parte penta stellata a qualsiasi collaborazione con il Pd e/o con altri partiti in genere. In linea di principio io capisco ed accetto ogni considerazione espressa dall’interno del movimento; in linea di principio!; ma la realtà del paese va ben oltre il semplice principio e la sacralità di qualsiasi coerenza. La realtà del paese è socialmente drammatica per non dire disperata e le condizioni dei molti che affrontano la vita ogni giorno diventano viepiù ingestibili ad ogni giorno che passa. In questo paese occorrerebbe che qualcuno, sarebbe meglio tutti, scendesse dai piedistalli su cui si è messo ( il nuovo) o è stato messo ( il vecchio) e decidesse, finalmente, di adottare quelle soluzioni necessarie alla bisogna. Nei Vangeli si può leggere di una domanda fatta a Gesù: “ … chi ci dice che tu sia un messo divino e non del demonio?”. Gesù rispose semplicemente : “ … se l’aiuto che ricevi porta comunque al bene puoi dire tu che colui che ti aiuta sia un messo del diavolo che è male assoluto?”. Ecco, io credo che se si fossero cercati accordi, anche con il demonio stesso, ma al fine di ottenerne un bene, forse oggi saremmo su di una strada differente. Ma con i se i con i ma non ci si riempie la pancia ed allora, voglio invitare ancora tutti a riflettere su quella che può essere la condizione di una persona disperata. Come?, nell’unico modo che conosco: inventando una storia …
“ … arthur miller … “
“ … camminava nei suoi pensieri mentre il sentiero dei ricordi scorreva indipendente sotto scarpe mentali consunte e stanche; lasciava che quel camminamento incrociasse libero la strada del presente consentendogli improvvisi balzi al futuro vicino, comunque, sempre più lontano: nessun nesso logico, nessuna attinenza dell’un incrocio con l’altro, nessuna conseguenza o pensiero finito, anticipo o conseguenza del precedente. Abbandonato apaticamente su quella poltrona semovente guardava di tanto in tanto la bottiglia ambrata, per contenuto e scelta, dal generoso dozzinale rum a tenere alta e vigile la propria voglia disperata di oblio. Algida e indifferente, il simulacro di una effimere ebbrezza non riusciva, benché ripetutamente interpellata, a svolgere un diligente compito e servizio; il sapore del liquido ferocemente alcolico che ancora gli riusciva a gustare eccitava, anziché sopire, la mente rendendo amaro, e più dell’aloe, quell’andirivieni neuronale che caratterizza la mente e la memoria di un uomo. Le frustrazioni, i dinieghi ricevuti, la paralisi e la precedente certezza di non riuscire più a salvare qualcosa di quella vita mortificata, la sensazione di aver rovinato la vita dei suoi cari e delle persone che in lui avevano creduto e forse ancora credevano, si erano personificate e sedevano accanto a lui come simulacri del proprio fallimento: impietose e determinate al crucifige che incombeva come una sentenza divina. L’ombra invadente e piena e tetra e profonda in cui era immerso sembrava dileguarsi al quanto e al quando la luce del lampione sulla strada, spinta da un vento tanto dispettoso quanto irriguardoso, si infiltrava al di qua della tenda illuminando, come da spot improvviso, ora il televisore spento, ora il vaso sulla mensola, ora i suoi piedi quasi avulsi dal resto del corpo. Nella stanza il bianco delle pareti visibile a stento tra i quadri alle pareti, con questi ovattava ogni cosa mentre, dalla finestra aperta sul fuori a pendio scosceso sulla scogliera, scoppiava improvviso ed incostante il profumo del mare: quel misto pacioso di salsedine e di alghe, ferale di rena umida e gasolio disperso, violento di pesce vivo e di marciume arcaico, che solo coloro partoriti liberi tra le onde riescono ad apprezzare in pieno respirandone come in una camera iperbarica dal quale traendone una sorta di sollievo e di ritorno a genetiche origini. Penetrava ed invadeva a combattere il fumo delle mille sigarette fumate o lasciate a morire tra altri simili cadaveri in un posacenere inventato e clandestino che aveva visto usi migliori. Un fumo denso, stantio, greve di quel tabacco da poche lire e lasciato a spegnersi nell’incuria di un’altra contemporanea sigaretta, accesa più per gesto automatico che per desiderio. L’ambiente come proiezione esterna di una mente in ambasce: calze disordinatamente sparse, vestiti lasciati a morire senza una dimora fissa, un paio di scarpe, i lacci ancora legati, a caso spinte lungo una parete o sotto un tavolo a dare mostra di suole consunte ed al limite della resistenza; giornali da per tutto e carte, carte ed ancora carte come sintesi ultima di ingiunzioni, bollette, scadenze …: ognuna, un impegno non mantenuto!. Lontani, a mischiarsi in una melodica cacofonia con il frangersi delle onde, auto lontane e frettolose, al di qua e al di là di una qualunque mezzeria, gli partecipavano altri pensieri a correre, in automatica guida, lungo sentieri propri, comunque coscienti, comunque alieni, estranei eppure presenti a rendere compagna l’altrui esistenza; immanenti al punto da sottolineare, come un tratto di penna, una solitudine che, seppure cercata, al solo pensarci si rivelava impossibile. Un gufo, no, sicuramente una civetta, da qualche parte nel mondo dichiarava presente a chiunque, volesse o non volesse, poteva sentirla. Il suo “cucumeo” ripetuto, acuto e squillante richiamo amoroso a compagno o compagna, arrivava diritto al cuore come un dardo assassino aggiungendo ipotesi di fantasmi ulteriori a quelli non chiamati, ma comunque a danzare quella scena finale recitata a braccio e senza alcuna ipotesi di spettatori plaudenti o affranti. Portò la bottiglia alle labbra in un impeto improvviso spingendo il liquido a scendere, ardente e irritante, lungo un esofago abbrutito dal fumo e dal reflusso che, indisponente e padrone, risaliva, in contraltare, a ricordare stravizi e dolori, inflitti subiti e vissuti, in una vita passata ora al fin troppo desiderato redde rationem. Dodici?, Venti?, forse l’intera chimica parentela di un Morfeo indotto seguì intrepida, vigliacca e triste compagna la stessa via a completare l’ultima insaziabile ed insaziata fame di libertà. All’orizzonte il cielo cominciava a prendere colori più chiari; un azzurro pallido e tremebondo cedeva il passo ad un celeste chiaro e brillante man mano che l’’arancio del sole al suo risveglio si apriva dai monti ad est a sorgere su quel mare che ancora e di più spandeva i propri profumi e le sue melanconie. Un braccio si lasciò vinto dalla gravità e ricadde liberando il vitreo ostaggio; la mente, finalmente ottusa, chiuse ogni propria connessione nel mentre che il cuore, più stanco e vecchio che malandato, raccoglieva le forze per un sordo ultimo battito. Reclinò la testa e restò immobile e cieco a guardar fuori quella nuvola di passaggio venuta a raccoglierlo e, come in tutti i suoi sogni infantili, a portarlo lontano in un mondo migliore. Ma i sogni son sogni e la vita finisce quand’anche fosse solo sognata; perciò si mancarono l’un l’altra, e, mentre la nuvola correva in cerca di altri sognatori da illudere, lui si fermò ad attenderne un’altra impossibilitato a sapere che … non sarebbe passata. “