… amarcord … - di Francesco Briganti

20.10.2014 09:26

Sono alto 192 cm; peso 115 kg. ed ho gli occhi azzurri come il mare in primavera. Sfoggio dei baffi alla mongola, rossi in origine e, qualche volta, ho lasciato crescere la barba; essendo, però, poco attento ai particolari l’ho sempre dovuta tagliare per non sembrare un miserabile senza nemmeno i soldi per una lametta. Ho i capelli brizzolati, molto più bianchi che neri ed è questa una sembianza a cui ho fatto l’abitudine da quando, una mattina di tanti anni fa, avevo trenta tre anni, mi risvegliai con le tempie canute; taglio spesso i capelli perché odio guardarmi allo specchio e vedere un pagliaio a coprirmi le orecchie. Ad ogni giorno che passa mi ritrovo sempre più simile, fisicamente, alla buon anima di mio padre.
Vivo in Toscana da quattordici anni e due mesi. Amo questa particolare parte d’Italia; amo la gente che ci vive, i suoi panorami, le stradine di campagna attorno casa, i prati verdi ed i campi coltivati; amo la collina dietro cui spunta il sole, i profumi degli ulivi, della terra dopo una pioggia estiva o in una di quelle mattine nebbiose così frequenti d’inverno; amo la brina e quel velo di gelo sulle auto in quelle mattine di gennaio in cui la temperatura scende a meno 5; amo quelle albe rossastre delle mattine di primavera e quelle altre violente delle estati in spolvero elegante e pregnanti di un divenire secco ed afoso; amo, sì amo, la gente, le persone e quel accento delicatamente marcato, così definito e caratteristico; eppure …
Certe mattine mi manca la mia terra; mi manca il sorgere del sole dal lontano Ionio, ed i monti su cui sono insediati Maida, Curinga, che, di seguito l’una all’altra, di sera segnano una scia di luci che sembra riflettere anche una lingua più dura ed aspra, ma molto più calda e amorevole; mi manca il profumo diverso dei nostri ulivi, quel sapore acre di una terra riarsa e polverosa, il suono a melodia del traffico sin dal mattino presto; mi manca la vista sul golfo che dalla mia cucina lasciava intravedere le Eolie più alte con Stromboli ed il suo pennacchio di fumo; mi mancano i miei amici, le mie conoscenze, i miei affetti di una vita. Mi mancano i bar della mia terra …
L’atmosfera che vi regna sovrana è la quintessenza del sud. Gioviale, allegra, rumorosa e casinista. Non si entra in uno di quei locali senza prima rivolgere un corale e ben scandito “buongiorno a tutti” e non vi è ingresso che non abbia in risposta un sorriso, un gesto cordiale o un “… che ti offro …” ricevuto da qualcuno degli astanti o da te profferito se sei tu ad essere già presente. Mi mancano le chiacchiere cordiali, quei rituali senza regole, ma uso e costume, per cui il più giovane cede il passo al più anziano e si cede galantemente ad una donna il diritto ed un riguardo di precedenza; mi mancano quelle piccole cerimonie che fanno di ognuno una persona importante e rispettata e che scandiscono nei luoghi e nel tempo quella stima dovuta ad ognuno a prescindere dal ruolo, dalla posizione, dalla condizione economica. Mi manca quel sentirsi in famiglia ovunque e con chiunque giacché di famiglia si tratta sino a prova contraria o sino a inimicizie e conflitti, apertamente, conosciuti a pochi o comunque, dichiarati.
C’è una sottile malinconia che veleggia su tutti e su tutto; una malinconia che non è tristezza, ma pathos diffuso e soffuso; una compartecipazione collettiva per cui le gioie sono di tutti ed i dolori altrettanto; per cui quantunque, comunque e per chiunque non c’è solitudine che non possa trovare compagnia, non c’è problema che non possa ricevere aiuto ad una soluzione, non c’è dolore che non riesca a trovare un sollievo, una carezza, una consolazione non fosse altro che in una parola o in simbiotico fuggevole gesto.
Da quasi cinque lustri qui in terra dantesca la cordialità e la gentilezza, comunque ed ovunque presenti, hanno, però e per me, un sapore diverso; c’è più distacco e più riserbo; c’è un pudore nel sentire e nel manifestare, nel essere sinergici e nel partecipare ed il senso di ognuno per la propria privacy è molto più acceso e sentito. La comunanza non è comunità, lo stare insieme non è stare assieme, il salutarsi non è sempre un gesto spontaneo o comunque dovuto e lo spirito alla critica, alla battuta salace, al pettegolezzo anche il più maligno, non sono sempre un aspetto folcloristico o scambiato a turno e vicendevolmente. A volte il sentirsi un estraneo diventa il sentimento dominante su tutti gli altri ed a parte un paio di persone che ritengo, tratto e mi trattano da amici veri, l’amicizia è un sentimento che non trova sponde facili alle quali approdare, eppure …
Resta sempre il dubbio che sia tu quello in difetto, sia tu a non esserti integrato, sia tu a non aver fatto abbastanza, sia tu che vivi un momento particolare e che tra le tante sfumature di grigio possibili quella che stai vivendo sia la più lontana dal bianco e sia quella, invece, tendente al nero più nero e, dunque, ti alzi e vai alla finestra la apri al mondo al di là e respiri, profondamente, più volte, a pieni polmoni, a “scassapanza” come si direbbe nella mia Lamezia; ti inebri del presente e prendi a calci i brutti pensieri, le tristezze e le eventuali ambasce e sorridi, sorridi agli altri e a te stesso riuscendo a convincerti che, come sempre, alla fine …

Tutto scorre e passa!.