Animali da cortile … - di Francesco Briganti
Acerra è un paese dell’hinterland napoletano. Alcuni tra i ricordi della mia infanzia mi riportano ad una tipica casa colonica: un’ampia sala, dove trovavano posto la cucina, il soggiorno ed anche una sorta di salotto dove due poltrone facevano da corona ad un divano in legno appoggiato al muro di fondo. Tre porte; due, una di fronte l’altra, facevano da ingresso per chi venisse dalla strada comunale e l’altra da uscita per chi, dalla casa volesse uscire nell’aia e sui campi. Una terza si apriva su di una rustica scala di legno che si arrampicava, io me la ricordo sofferente da come era vecchia e vissuta, al piano di sopra dove erano le camere da letto dei miei zii, Ciccillo e Gigina, e dei miei cugini, Annuccia, Mario ed Enrico. Da Napoli, fine anni cinquanta, inizi anni sessanta, qualche volta la domenica andavamo a trovarli per il piacere di rivederli e per trascorrere una giornata diversa; nei miei ricordi non c’è ritorno che non vedesse la seicento bianca e celeste di mio padre piena di ogni ben di Dio, dai “ frijarielli” ai cachi, alla farina, al pane, a salumi di ogni genere; ogni cosa, secondo la stagione, e, comunque, di un sapore che allora sembrava essere celestiale e diverso da ciò che i comprava in città.
La porta sull’aia dava in un spiazzo che, a noi piccoli, sembrava immenso; un numero infinito di galline e di oche e di papere corazzavano felici per il lungo ed il largo diventando, poi, nevrasteniche quando cominciavamo ad inseguirle senza smettere un attimo; due maiali, presumo un maschio ed una femmina, richiamati dal chiasso, guardavano l’accaduto dal loro porcile in un angolo presso il fienile dal quale, poi, uscivano un po’ a sincerarsi che non fosse già Natale ed un po’ per vedere che era il caso di partecipare a quella che sembrava essere una rumorosa festa di paese. In fondo al fienile la stalla ed i cavalli. La prima, parco giochi succedaneo dell’aia dove le balle di fieno fungevano da fortini improvvisati nelle improbabili guerre tra i cowboy cittadini e gli indiani delle praterie ed i secondi, statuari, solenni ed impassibili a guardare le finte morti e gli spari vocali precedenti quasi che una memoria genetica dicesse loro: “ … tanto è tutto finto … “. Lontane ed un po’ in disparte un toro, qualche bue ed una decina di mucche rendevano l’idea, a chi capisse e sapesse, che quei miei zii contadini non erano affatto persone economicamente messe male, ma soprattutto evidenziavano, con la loro placida, tranquilla pastura la bellezza di un quadro d’assieme che noi “cittadini” stentavamo ad apprezzare; schiavi, come stavamo diventando, di quell’infernale aggeggio che già cominciava ad essere presente in ogni casa: quella televisione del musichiere, del teatro del venerdì e del maestro Manzi che, subdolamente, diveniva sempre più spesso, l’alternativa alla passeggiata a Mergellina, alla birra ed ai tarallucci “nzognepepe” del lungo mare e a quei frutti di mare crudi, venduti liberamente e senza timori, di cui mia madre andava pazza. Napoli e la sua campagna, erano allora, la città da vivere ed il rispettivo orto salvifico. Napoli e la sua campagna, oggi, terra di fuochi e di morti: passa il tempo e le cose cambiano; qualche volta in meglio, sempre più spesso in peggio!.
Brandelli di memoria e flash di memoria tornati alla mente nel corso di una discussione avvenuta ieri sulla base di una affermazione fatta su fb da un mio amico virtuale il quale affermava, sintetizzo ed estremizzo al massimo, come Enrico Berlinguer non fosse altro che un ignava politico colpevole dell’assassinio del comunismo ed il padre putativo della classe politica e del partito erede del grande PCI. Del tutto in disaccordo con questa presuntuoso affermazione, ho riposto, devo ammetterlo, in maniera rispettosa, ma un po’ esagitata dando la stura a tutta una serie di commenti che via via diventavano più drastici ed, alcuni, persino offensivi. Partendo dalla assurdità dell’affermazione fatta circa le colpe di Enrico sono persino giunto a chiedere ad uno degli afferma tori di farsi vedere di persona onde dargli la possibilità di ripetermi in viso gli insulti così da darmi l’altra possibilità: quella di fargli vedere che non sempre si è disposti ad offrire l’altra guancia. Me ne scuso con Lui e con chiunque avesse letto, pur non senza ripetere che non sono stato io il primo ad offendere e che, sparlare di Enrico Berlinguer, hai voglia a dichiararti compagno, per me sei solo un infiltrato che cerca di seminare zizzania; qualcuno che, spacciandosi per comunista tenta di seminare, utilizzando le ipotesi e gli argomenti e le accuse più anti sinistra che sia possibile, discordia, insicurezza e motivi di abiura in una parte politica già, di per sé, divisa e mortificata.
Il particolare, però, che ha stimolato i ricordi e che continua a tormentarmi è definito dal fatto che, ad un certo punto, sembravamo tutti ed ognuno la rappresentazione odierna di quelle galline e di quelle papere inseguite in un aia da ragazzi spensierati ed ignari del contesto generale. Tutti ci dichiaravamo compagni e comunisti, ma ognuno era allo stesso tempo in corsa per difendere la propria posizione e scappava da e con ciascuno degli altri dandola vinta a chi inseguiva e frammentava e scompigliava le fila. Ci dicevamo di sinistra, quindi compagni, per cui fratelli e dunque amici di lotta e di obbiettivi, ma, pure, non esitavamo ad essere ognuno per conto suo senza più quello spirito di appartenenza che avrebbe dovuto unirci nelle differenze e non farci litigare nelle differenze.
La sinistra di oggi è questo: un’aia ampia, spaziosa, piena di vita e di potenzialità, ma spenta e poco vitale quasi fosse rassegnatamente cosciente che il proprio destino è quello di essere, nel suo insieme parcellizzato ed in ognuno dei propri aderenti, solo un effetto teorico e, quindi, non un mezzo pratico per una vittoria, ma una vittima sacrificale per un succulento ….pranzo di Natale!.