… ci vorrebbe un amico … - di Francesco Briganti

30.10.2015 08:24

Una caldera: un cratere vulcanico di otto chilometri di raggio. Lontane le pareti scoscese dei bordi, pur alte sembrano colline all’orizzonte; la savana si estende sterminata per ogni dove; sparuti crocchi di alberi ne rompono il piatto profilo ergendosi qui e là quasi a sentinelle dell’intorno. Pascolano a migliaia, a milioni, specie diverse di quadrupedi. Le antilopi corrono tra balzi improvvisi a segnalare la propria vigoria; mastodontici bufali si guardano altezzosi intorno quasi a sfidare che si attenti alla loro possente mole; gli gnu fiutano l’aria cercando di sentire quel pericolo nascosto tra l’erba che non riescono a vedere mentre le zebre, giocose e dall’aria strafottente si rincorrono mischiandosi agli uni ed agli altri.

L’erba alta, bruciata dal sole di una stagione secca in attesa della pioggia a far rinascere ogni cosa, nasconde guardingo un leopardo seguito dai suo cuccioli lanosi; avanza sospettoso tenendosi nel folto, la tana non è lontana, ma sa, sa bene, che della sua cucciolata forse soltanto uno riuscirà a diventar grande.

Impavidi, ma timorosi, avvoltoi e sciacalli spolpano le ossa brunite di una carcassa resto spoglio di un gruppo leonino appena passato dalla caccia, al pasto, al riposo; le risate stridule di iene complici tra loro e ladre d’abitudine stazionano sotto una acacia aspettando che l’antilope preda di un ghepardo ansimante gli cada dalle fauci per farne strazio e pasto senza fatica; il sole picchia martellate da maglio su tutto ciò che si muove fuori da quelle ombre rinfrescanti e protettrici di baobab isolati o di altre acacie spinose raggruppate a due o tre quali oasi a calmierare una temperatura da fornace.

Statue granitiche e mastodontiche, immobili come colonne d’ercole in quel oceano d’erba rinsecchita, forse dormienti, forse semplicemente stanche di un continuo andare, elefanti grigi di fango, oramai cementato, appena sbiancati dal costante velo di polvere che si lasciano spiovere addosso, in gruppo attendono, vecchi d’esperienza e nuovi di voglia vivere, che il cielo da patrigno diventi padre lacrimevole ed affettuoso.

Lontano, fiamme rossastre avvisano tutti ed ognuno che un fuoco auto combusto ha cominciato a rigenerare il terreno mentre, ancora più sogno che realtà in divenire, nuvole nere ridondano di echi profondi di tuoni cupi ed improvvisi proprio come quei fulmini saettanti che scaricano, subito prima, violenta la propria intensità su bersagli estemporanei ed ignari.

La pioggia tanto attesa e ristoratrice ancora per un po’ resterà oltre l’orizzonte montagnoso.

Solo. All’ombra di un immenso formicaio a fargli ombra contro sole, si tiene sotto vento cauto e febbricitante. Da padrone assoluto che era del suo branco, adesso riporta evidenti le tracce degli ultimi scontri. Lecca le proprie ferite sapendo che sono già infette ed in via di cancrena. Le mosche ne tormentano il dolore e ne acuiscono la fatica accorciandone il respiro, cerca di scacciarle a colpi di coda e con ruggiti sempre meno rumorosi, meno cupi, meno spaventevoli: il suo regno è finito, la sua vita sta volgendo al termine e se avesse un dio dei leoni da pregare, forse gli chiederebbe una grazia a risolvere quelle pene continue che gli tormentano un’anima che sa di non avere.

Alza la testa e lo sguardo, il proprio odore è forte, è intenso di onestà misconosciuta, di lotta al tradimento ed all’abuso di suoi simili vigliacchi e profittatori; ruggisce di tanto in tanto, tenta di avvertire che è ancora vivo, che non è pronto a morire, che combatterà sino all’ultimo e che ne porterà con sé: oh!, se ne porterà …! .

Il suo odore è forte; pungente e acre incuriosisce, infastidisce, eccita quelle iene sotto l’acacia: respira il ghepardo e vedendole allontanare allenta la stretta delle fauci sulla propria preda.

Lui più che vederle le sente avvicinare; ora il suo ruggito da re della foresta, sembra più una minaccia timorosa. Si agita, tenta di scuotersi, prova ad alzarsi sulle zampe ferite e piagate; scrolla con un moto di ultimo orgoglio la criniera … poi, arriva il primo morso sfuggente e poi un altro ed un altro ancora. Si straziano le carni in quei punti già straziati ed in quelli ancora intatti; il dolore è lancinante, le forze sempre più flebili, ma l’orgoglio leonino lo tiene in piedi.

Risponde morso a morso, artigliata ad artigliata, le diciannove iene che gli sono intorno non danno tregua, sanno che quel leone morente sarà il loro trionfo traditore: mai, solo qualche tempo prima, avrebbero anche solo pensato di avvicinarlo ed ora gli danno addosso come fossero nate apposta per quel compito.

Riesce ad azzannarne una. E la matriarca del gruppo, è la iena alfa, è giovane, è spudorata, è quella che più volte ha profittato dei suoi avanzi; lui, il leone morente, l’ha puntata sin dall’inizio dello scontro; è lei quella che lui porterà con sé nei campi elisi selvaggi dell’agone animale.

Oramai il suo corpo è tutta una piaga sanguinante, i suoi occhi non vedono più nemmeno le ombre ed ogni stilla di forza scema seguendo le ultime gocce di sangue a fuoriuscire dalle proprie infinite ferite; ma è un attimo e prima di morire, nell’inalare l’ultimo respiro, stringe le fauci e spezza il collo di quella iena putrida e ridanciana che avrà anche contribuito ad ammazzare il leone, ma che, di certo, non avrà il piacere di vantarsene.

Muoiono entrambi … mentre in cielo compaiono le prime cinque stelle della sera!.

Dunque … Roma!.