… … … - di Francesco Briganti

25.08.2015 09:29

Da est, sopra il cielo di Lucca e via andare sino al mare di Viareggio, una “vrogna” cupa, di più, nera, offensiva e pregna di pioggia a cadere, minacciosa annunciava il suo arrivo; seduto alla resede della Tiziana mi gustavo quei vicini orizzonti poco al di là della strada; Case su case ad interporsi prima dei campi di mais e di girasoli. Verso Pistoia e Firenze ancora un’azzurro di speranza accoglieva chi andava svegliando i propri sogni mentre un brezza, fresca, birichina e frizzante mi riportava, quasi allucinazione olfattiva, quel profumo noto e quel sapore mnemonico connaturato a chiunque di mare sia nato e di mare voglia morire.

La mia mente, entità libera ed indipendente, ripercorreva fradicia di piacere tutte le volte che le stesse ore calabresi, ci vedevano, viandanti a pescare nel golfo lametino; si staccava a permeare lo sguardo, il vedo non vedo del profilo lontano di Stromboli; la costa di Pizzo, di Vibo mi sembrava fosse lì a far da sfondo a quelle case improvvisamente aliene e prima ancora l’alto ponte sull’Angitola segnava il confine dove sfociava la strada dalle Serre. Mi sentivo cullare dal tranquillo sciabordio delle onde lunga la fiancata e dal sottofondo di voci, Natale, Pino, qualche volta Vincenzo, a raccontare, raccontarsi, sfottersi e seriosamente incazzarsi per quel figlio di una cernia bagascia o di un palombo assassino proditoriamente sfuggito all’abilità maestra di ognuno di noi.

La mia barca, “ ‘O sghif “ come l’avevamo battezzata, imitando alla irlandese un modo napoletano di indicare una imbarcazione di poca importanza e di nessun pregio, fendeva un mare forza meno uno spinta più dalla attesa che qualcosa abboccasse che dalla corrente di un Tirreno il più delle volte pigro almeno quanto coloro che lo solcavano. L’acqua cristallina lasciava intravedere quei dieci venti metri di fondale sabbioso via via a cambiare nel verde alga, intenso e carico, di qualche secca rocciosa; vedevamo pesci veloci scorrere attorno ai piombi giuda che li adescavano attenti come eravamo a quel tocco furtivo, a quella “ pizzolata ” esplorativa, propedeutica ad una fine imminente o di una sconfitta di superfice.

Al di sopra dei profili di Curinga e San Pietro, seduto con i miei amici di sempre in uno scafo di memoria lasciavo che, da quella resede, il profumo dei cappuccini e delle brioches transummasse nel calore odoroso degli aranceti lontani; accettavo il riverbero del sole a sorgere e lasciavo si riflettesse su di ognuna di quelle palle giallo oro, ciascuna a rimandare un riflesso verde di foglie ed oro di frutto che accecava gli occhi nel momento stesso in cui esplodeva nel cuore e nell’anima: colui che non avesse mai visto il sorgere del sole, sentendosi quasi sperduto nell’infinito azzurro del mare, avrà avuto dalla vita altre gioie, ma non potrà mai dire di sapere cosa significhi vivere per chi a mare c’è nato.

Un tuono lontano, straniero in quel cielo limpido e terso, si accompagnava alla voce di Pino che ne tirava su tre contemporaneamente mentre l’invidia, mia e di Natale, boccheggiava borbottando assieme all’eco a sparire. “ … che culo Pinù … “; “ … ma quale culo e culo, io pescavo a chili che voi ancora non eravate nemmeno nati … “ e quelle mani, di cui ogni dito sembrava fatto di ferro forgiato, delicate slamavano pesci ingordi di bigattini traditori più assassini dello strappo che li aveva fottuti.

Gocce di pioggia, prima poche ed indecise, poi molte e violente, cominciavano a cadere dalla “ vrogna “ oramai giunta sulle nostre teste. Stranamente, però, nessuna di esse ci raggiungeva e colpiva; tutte si fermavano rumorose poche decine di centimetri sopra la nostra testa. “ ‘O miracolo … ! “ avrebbe gridato un ingenuo Lello Arena fosse stato con noi. Stralunato, ho impiegato qualche secondo per ritornare al mio presente ed alla tettoia che ne faceva scudo e protezione.

Ed allora ho corso. Ho corso sotto la pioggia infradiciandomi passo dopo passo; ho corso nella voglia disperata di tornare indietro negli anni; ho corso per sfuggire da quella tristezza del vivere che sempre più spesso mi affligge; ho corso in cerca di tutto quello che avrei voluto essere senza riuscirci; ho corso verso quegli orizzonti che non sono riuscito a raggiungere; verso quel futuro più memoria giovanile che speranza ancora a venire … ho corso, ho corso ed ho corso ancora finché ogni sigaretta fumata non ha richiesto il proprio pedaggio alla mia stupidità ed alla mia smania di sfidare la sorte.

ED ORA SONO QUI!, fradicio, con i panni inzuppati ad impregnare una sedia, a raccontare ed a raccontarmi non perché a qualcuno interessi, ma solo perché …

neanche io lo so, o forse sì!.