… dimmi che non vuoi morire … - di Francesco Briganti

19.11.2014 09:07

Scrivere è, in fondo, un modo come un altro per combattere la solitudine; quella solitudine che prescinde dalla compagnia; quello stato d’animo risultato finale di una somma di circostanze, alcune prettamente soggettive, altre oggettivamente evidenti, le quali non potevano che portare ad essa; quell’approssimarsi ad un bivio propedeutico a due traguardi alternativi tra loro: il primo taglio di un nastro su di una resa incondizionata alle cose della vita ed il secondo un abulico, cinico, a volte maligno disinteresse per l’altrui esistenza. Scrivere, quindi, è una sorta di ribellione a tutto questo; consente di mantenere vivo un legame con il mondo al di fuori dell’io nella attesa di prender coscienza della propria resa o/e della propria malignità, vivendo una immensa sorpresa quando invece portasse all’accorgersi che alla fine dei conti si può tranquillamente continuare a vivere accettando ognuna delle sfaccettature suddette. Scrivere diventa allora una sublimazione dell’essere quale che sia la propria natura, la propria condizione, il proprio intorno. Scrivere consente a chi scrive di essere ciò che ciascuno degli altri a leggere voglia che sia, tanto più quanto meno materiali e tangibili si fosse. Scrivere rispecchia la capacità di aizzare l’ IO COSCIENTE altrui!.
La supremazia e quindi la sopravvivenza dell’uomo habilis nei confronti del neanderthalensis, nel lungo periodo in cui le due specie furono contemporanee, fu determinata dalla capacità del primo ad esprimersi secondo un linguaggio coerente e diffuso tra i propri componenti. La guerra intestina e fratricida del genere umano fu vinta dalla parola intesa come termine vocale indicante un preciso bersaglio; fu vinta dalla sintassi e dalla grammatica e dalla fluidità di quell’insieme di suoni che diventavano via via concetti e quindi immagini e dunque possibilità di fare tesoro delle esperienze passate ed immaginazione di ogni futuro possibile; la parola, le parole, furono la leva per sollevarsi dallo stato animale a quello di creatori: fu la parola ad essere il vero ed unico dio creatore dell’universo!.
E’ senz’altro vero che ogni cosa esisteva in precedenza, esiste a prescindere ed esisterà in futuro, ma esattamente come esiste ogni cosa che esiste quando anche non se ne conoscesse quell’esistenza, è altrettanto vero che l’ignoranza di quell’esistenza, quale che essa fosse, la renderebbe inconsistente ed inutile così come, e ancor di più, se conoscendola non si riuscisse a trasmetterla agli altri in termini comprensibili e comuni e ad ognuno.
Dunque si esiste in funzione del proprio rapportarsi con l’altro da sé ed a ciascuno è delegato il modo e la funzione di quel rapportarsi; a ciascuno è delegata la capacità di creazione di un consesso comune, oggi detto sociale e civile ed a ciascuno compete la responsabilità del risultato finale.
Alla luce di tutto ciò homo faber fortunae suae non è la solita egoistica cazzata da dire e dirsi la domenica mattina sorseggiando il caffè, ma diventa quella molla necessaria a ciascun elemento del genere umano a che non si sopravviva in un immobile pantano, forse pacioso, di certo putrido e puzzolente, ma si nuoti, magari con fatica, nelle acque agitate e diverse del continuo divenire.
E dunque la solitudine, essenza comune degli uomini, quindi la parola ed i loro figli: il dire, il comunicare, lo scrivere e poi la rappresentazione nel teatro terrestre di quel copione di cui tutti non solo possono, ma devono essere …

autori, registi ed attori!.