… FOG … - di Francesco Briganti

18.12.2014 09:24

Il bar della Tiziana ha, prospiciente via dei Fabbri, una piccola veranda. Al di sopra della carreggiata ne è separata da tre gradini e, di solito, vi ci sono piazzati due tavolini e quattro sedie; su una di queste ogni mattina, estate o inverno, sia bel tempo o sia tregenda, mi ci siedo e gusto il mio cornetto e sorseggio un delizioso cappuccino. Dalla vetrina del bar, essendo ancora scuro, una esplosione di luce apre sulla strada un ampio angolo illuminato che via via si ingrigisce e scema tanto più si allarghi la visuale. Stamane quello spazio era un biancore lattiginoso, quasi tremolante ed anche un tantino angosciante, delimitato com’era da due spesse pareti di nebbia: densa, fitta, ad impedire i particolari di ogni cosa poco al di là di quella penetrazione luminosa.
Come su di un disco a 16 giri auto improvvise lentamente la attraversavano caute; un ciclista temerario, il solito abituè delle sei e trenta, con un giubbotto giallo a dichiararne l’esistenza, passando mi ha salutato veloce comparendo e sparendo nell’arco di qualche secondo; al di là della strada, oltre il basso muro di cinta il lampione dell’Agricola perdeva la propria battaglia non riuscendo a diradare il terzo lato dell’angolo; il tutto nel silenzio più ovattato e solido che avessi mai sentito.
Sorseggiavo il cappuccino tra un brivido di freddo ed uno di tensione, quando ecco che da destra, chino nelle spalle, imbacuccato come venisse da una steppa ghiacciata, un anziano fagotto, un vecchio a vedersi da vicino, strascicando un passo incerto, è sbucato dal muro di nebbia e rimanendo sulla strada, mi si è avvicinato, mi ha guardato quasi fossi irreale ed ha proseguito come fosse sempre più stanco ad ogni passo, avendo deciso la mia non esistenza e, forse, anche la propria.
Dietro a lui, quasi fosse emblema di una via crucis, un giovane baldanzoso e dal aspetto deciso, squarciava la nebbia e irrompeva nel cono di luce; fronte alta, mento volitivo trascinava alle sue spalle una retata di individui smaniosi e vocianti. Confusionario ed incomprensibile il loro parlottare veloce si perdeva inutile in quel palpitare lattiginoso di progetti, speranze, annunci, previsioni,obiettivi; poi scemando pian piano nel mentre che il condottiero li precedeva, danzando sparendo nel buio oltre la luce dimostravano al mondo la loro assolutamente inutile e vacua essenza.
Attimi di silenzio ed eccone un altro, no!, son due, anzi tre; una maschera orrenda e contorta, bava alla bocca ed abiti discinti un po’ da carabiniere, forse un po’ da infermiere, calze a rete, sia operaio che capo d’industria, urlando anatemi contro giudici e comunisti si scalmanava assieme ad un altro che le faceva eco sfanculando come il peggior turco di questo mondo inneggiando alla conquista della maggioranza di un impero tanto irreale quanto fitta e densa era la nebbia; il tutto, proprio nel mentre che una sorta di calvo ed alto pellegrino, inginocchiato e servo per genia intellettuale e convenienza pur che sia, li supplicava di non lasciarlo indietro giacché, quelli come lui, oppositori o supporter, servono, servono sempre. Ancora ed appena qualche passo più indietro due gruppi: mille o giù di lì a far presente assenza nella sconclusionata parata generale.
Stupito ho guardato nella tazza chiedendomi quale droga fosse capitata nel cappuccino al posto dello zucchero; neanche il tempo di abbozzarmi una risposta che come una marea anomala ed inattesa un rumore crescente anticipava e preannunciava l’infinita sfilza di lamentosi a seguire. A centinaia, a migliaia, a milioni persino, gruppi di ogni genere apparivano e sparivano nella nebbia. Ognuno e tutti ad imprecare contro chi li aveva preceduti, contro il destino cinico e baro, contro la sorte bieca ed assassina, contro il malgoverno, contro il malaffare, contro …, contro!. Comunque ed a prescindere!. Sessanta milioni di questuanti in battibaleno attraversavano in uno strano connubio di gioia, dolore, esaltazione, rassegnazione, spirito di rivalsa ed al contempo di rinuncia, quel lasso tempo che mi è servito per non strozzarmi con il sorso di latte andatomi di traverso.
Ho rialzato il bavero del cappotto e rabbrividendo mi sono scrollato di dosso l’umido di quella nebbia tossica come un fungo di pejote; allucinogena come una pasticca di acido lisergico; tetra come sa esserlo in questopaese la realtà di ogni giorno.
Dal bar è uscita la Tiziana, la sigaretta tra le dita e con una voce un po’ roca: “ … hai visto anche tu? …” mi ha chiesto titubante quasi sperando in una mia risposta negativa ed io:

“… tranquilla Tizi …, non era un allucinazione; era l’Italia, solo l’Italia!”.