… full metal jacket … - di Francesco Briganti
Fui di leva nel periodo più bello della mia vita. Finito il liceo mi ero iscritto alla facoltà di medicina in quel di Napoli; vent’anni, di aspetto gradevole, acculturato il giusto, auto, una libertà illimitata e mi godevo la vita così come ognuno a quella età e nelle mie condizioni faceva. Da porta san Gennaro su via Foria telefonai da un bar a casa per dire che, in assoluta anteprima, avevo dato il colloquio di osteo artrologia; ero felice, iscritto da appena due mesi, avevo già dato il primo esame; mio padre mi lasciò parlare, poi, mi annunciò che era arrivato un avviso dei carabinieri e che dovevo presentarmi in caserma per comunicazioni. Scoprii così, che nonostante avessi presentato domanda di rinvio, forse fuori termine o forse persa, non l’ho mai saputo, non essendomi presentato alla caserma di destinazione ero considerato un renitente alla leva per cui o partivo subito o sarebbero stati uccelli specifici per diabetici.
Non volevo fare il militare, non mi è mai piaciuta l’autorità a prescindere e, comunque, lo consideravo un periodo perso. Ricorremmo a tutte le scappatoie possibili, ma riuscii ad ottenere soltanto che da R… dove ero stato destinato venissi trasferito ad un corpo speciale alle dirette dipendenze del generale De P… . Era il 1971 quando finivo alla caserma Vittorio Veneto di B… . A parte il venir serviti a tavola, nelle ore preposte, da altri commilitoni, non ne ricavai nessun vantaggio: durissimo addestramento specifico, ronde armate nel periodo degli attentati ai tralicci e ogni insegnamento possibile a come procedere in casi particolari, a predisporre un cammino, palese o nascosto, il più sicuro possibile, a come nuocere nel peggiore dei modi e nel tempo più breve ad un eventuale nemico o a qualcuno comandato tale; a come interpretare messaggi del tipo: ” … la signora Rosa ha comprato le mele …”.
Provarono ad insegnarci anche a resistere a possibili condizioni di prigionia; tra i tanti ricordi che ogni tanto riaffiorano quello di arrendersi ad un trattamento fisicamente e psicologicamente violento oltre il sopportabile eppure, più per puntiglio e per intima convinzione fosse una esercitazione che per coraggio, sopportato. Ricordo quanto fosse immensa la voglia di resa e di gridare quel basta che avrebbe posto fine ad ogni cosa fosse pure alla vita stessa: dei cinquanta che avevamo iniziato quel tipo di addestramento ne rimasero meno di trenta; la loro storia è un’altra storia.
La voglia spasmodica di dire: “ … basta … ! “. La rabbia per il dolore, per la pressione psichica e l’impotenza a reagire perché costretti o perché impossibilitati a farlo; l’avvertire l’inutilità di un esistenza che subisce una violenza continua senza poter esprimere fattivamente un qualsiasi attività di ribellione che fosse fattiva e capace di ribaltare una situazione eppure, la pazienza continuata, rassegnata e forte del credere che, quando fosse anche solo una lontana possibilità residua, la propria vendetta ed il proprio riscatto sarebbero costati per cento volte l’umiliazione e la sofferenza patite. Memorie così vecchie e seppellite da sembrare ancestrali quando non estranee ad un presente del tutto diverso e alieno a quei tempi, a quelle situazioni, a quelle circostanze. Memorie così vecchie e passate da ritornare solo come incubi notturni o come leggero rimorso, fugace e passeggero, forte del fatto che gli ordini non si discutono e non si ragiona sulla loro liceità e/o legittimità. L’assoluta e cieca obbedienza all’ordine costituito.
Quarant’anni dopo mi capita sempre più spesso di sentire al presente quel infame periodo. Avverto come vita di caserma l’iter quotidiano di ognuno; ne sento la sofferenza, fisica e psicologica diffusa, ne intuisco l’impotenza radicata e rassegnata; ne assaporo l’indiscussa voglia di rivincita frustrata dall’ineluttabilità avvertita a pelle di un cambiamento impossibile a credersi probabile eppure in tutti accompagnatasi con quella certezza che “ … se solo riesco … vedrai come ti concio … “. Il problema, l’unico e vero, è, però, che tra tutti noi cittadini di questo popolo solo pochissimi hanno avuto un addestramento tale che può permettere di ribaltare a proprio favore una situazione disperata e, quei pochissimi, sono quasi tutti dall’altra parte.
“ … Dio abbia pietà di quelli che incappano nell’ira dei giusti … “ mi pare si dica da qualche parte; ma possono considerarsi giusti coloro che fanno di quel sentimento di rivalsa una sorte di legittimazione di una attesa che non vedrà mai sbocchi proprio perché destinata a restare pura e semplice attesa?. Possono considerarsi giusti coloro che vedono in questo e/o in quello colui o coloro che li riscatteranno della loro ignavia?. Possono considerarsi giusti coloro che si astengono dall’assumersi delle responsabilità e non votano o lasciano che altri con dei totali da spesa di famiglia pretendano di comandare un intero paese?.
Io non so Voi come la pensiate, quello che a me pare cosa, unica e veramente, giusta è che quelle genti di quel popolo di quella nazione più che giusti siano gli unici veri ingiustificabili …
COLPEVOLI!.