… gocce di memoria … (2) - di Francesco Briganti

30.12.2015 10:56

Mi ritrovai, assorto nei pensieri, a giungere nei pressi di un parco le cui rimembranze da un agosto ormai lontano, mi lasciarono, ancora una volta, disorientato. A fatica, la mia mente riusciva a cogliere il come ed il quanto il grigiore di quella realtà affermata di inverno, fosse riuscito a spogliare le sagome sinuose degli alberi che, imponenti, si ergevano al di sopra della mia testa e come, da quel 20 di un ottobre, oramai lontano anch'esso, il tempo avesse stillato le sue ore così rapidamente.

Il viale viveva di mulinelli di foglie ingiallite dal tempo che si rincorrevano nel vento. Le seguivo nel loro staccarsi delicatamente dai rami, carpiare lentamente su se stesse per poi posarsi al suolo con un suono ovattato e per poi risollevarsi appena e, ancora, vorticando, trasportarsi in quello spettacolo di vita che rapiva la mia mente: assente e nuovamente assorta. Il sibilare rauco del vento sembrava il rantolo di un uomo raffreddato; mi calai per un istante nel ruolo perdendomi in esso: ero così immerso nella folla dei miei pensieri che attraversavo il viale a passo leggero, quasi non volessi rompere con lo scricchiolio delle suole, quel particolare rumoroso silenzio.

D’un tratto, nell’eco sottile del gracchiare del vento, una vocina allegra, in lontananza; sotto un archetto di edere, rampicate su di un pergolato poco visibile dalla curva del sentiero appena sorpassata, una piccola creatura: pulita nel suo vestitino stirato ed insolitamente leggero, creava ai miei occhi un contrasto di colori quasi surreale; quasi le immagini dei primi programmi a colori di quando ero bambino: cinque anni, o poco più!.

Quella bimbetta dai capelli scuri e ricci, sola nel viottolo sterrato, faceva rimbalzare energicamente una palla e, stringendo i dentini fra le labbra rosa, sottili e leggermente socchiuse, arricciava curiosamente il naso dando vita ad un sorriso vispo e dolcissimo. Compiaciuta, seguiva la sua palla, ne osservava i rimbalzi, la rincorreva, se la stringeva al petto e lasciava ricadesse ridendone delle traiettorie improvvise a perdersi nell’erba.

Completamente presa dal suo gioco, la vedevo caracollare di qua e di la, incurante del circostante. La palla, spinta da un rimbalzo strano, la costrinse a seguirla con un movimento quasi alla cieca tanto che la bimba, spinta da una inerzia incontrollata, finì con lo scontrarsi con un fagotto di stracci malamente buttato su di una panchina; il trillo della piccola voce si confuse, un po’ sorpreso ed un po’ timoroso, col profondo fastidio di un colpo di tosse: animandosi, quasi fosse un cartone giapponese, un vecchio corpulento signore si sollevò dalla panchina ergendosi in tutta la sua evidente, sofferente canuta difficoltà.

Tornai sui miei passi, interessato da quel affrontarsi di corpi così sproporzionati e diversi fra loro, attirato ed un po’ preoccupato dall’evolversi del incontro. Mi avvicinai discretamente mentre i miei occhi spiavano la mani dell’anziano signore: solcate da rughe profonde, esse poggiavano, impugnandolo con forza, su di un bastone, quasi per dare al corpo un sollievo al peso dell’enorme e malandato giaccone che lo copriva. Il viso, impassibile e dapprima assorto, si girò da un lato, quando nella mente avvertì il giaccone scivolare dalla spalla sinistra, strattonato com’era, dalle minuscole mani della piccina che, a capo chino, la guancia rosea coperta dai riccioli neri, lo squadrava dubbiosa.

Qualche istante e il dubbio le si sciolse in sorriso sbocciando in una domanda improvvisa : “ Qual è il tuo colore preferito?”, gli chiese, poi riprendendo ad inseguire la sua sfera colorata; voltando la testolina continuò: “ Il mio è il rosa …”. Il vecchio serrò gli occhi in un segno di dissenso, inarcò le sopracciglia e scuotendo lievemente il capo, portò una delle mani, saldamente appoggiate al pomo del bastone, ad accompagnare l’uno verso l’altro i lembi del grosso collo di lana quindi, raddrizzate le spalle e quasi a fatica: “Anche il mio” le rispose.

Non soddisfatta di quel convenire passivo, forse colpita dalla tristezza di quegli occhi lucidi e mi sembrò, stanchi oltre ogni dire, la bimba abbandonò al suo destino la palla che continuò la sua corsa sul prato e, portando una manina a spostare la frangetta scompigliata dal vento leggero, si avvicinò di nuovo al vecchio signore: “ Ti senti solo? “ gli disse “ Non esserlo. Ci sono io, qui, con te…”

Il vento continuava la sua melodia viaggiando da fronda a fronda , da ramo a ramo; qualche rombo, ovattato dalla lontananza, manteneva, in una atmosfera di fiaba, il legame col mondo circostante, il profumo di un temporale prossimo a venire fermava l’istante come in una polaroid ormai a sbiadire. Lo lasciò un istante e, senza staccargli lo sguardo di dosso, recuperò la palla poi, con le braccia tese, come fosse la cosa più naturale del mondo: “Sono sola” continuò “ mi accompagni dalla mia mamma?” e lasciò scivolare la sua manina in quella rigida del vecchio stringendogliela forte.

Mi sembrò di avvertire quella stretta fra mani direttamente nel cuore: si dissolsero insieme, scomparendo alla vista oltre la curva del sentiero, quasi non fossero, e forse non lo erano, mai esistiti. Mi affrancai, di nuovo solo e di nuovo presente a me stesso, dalla miriade di pensieri che affollavano copiosi la mia mente e fra questi, da questi, per questi, un aspettato addio, fatto di preghiere a salvare e di altre ad invocare una pietà risolutiva, rigurgitò l’acrore di un sapore acido ed affaticante per poi sparire come al risveglio da un sonno profondo …

“ Parlami … La tua preoccupazione, La tua esperienza, Il tuo esserci stato.
Parlami … La tua paura, La tua stanchezza, La tua vecchiaia.
Parlami … Il tuo presente, Il tuo passato, Il tuo futuro
… forse … .
Parlami …e perdonami, il mio passare oltre
mai sarà che questo ti uccida nei ricordi. “

Ripensai a mio padre. E lo rividi, lì, davanti a me, giovane come alla mia nascita; determinato come nei momenti più duri; allegro e fiero come quando mi guardava da quel tacito orgoglio mai espresso a parole; vivo, ancora una volta come se quell’ottobre non fosse mai esistito e strinsi le sue mani dimentiche dell'angoscia …

di un “ me “ ancora troppo figlio per esser un buon padre e non abbastanza padre per sapere di essere stato anche un buon figlio.