… il primo … a volte l'ultimo ... - di Francesco Briganti

17.12.2014 08:11

89 è il numero che precede il novanta; quest’ultimo è quello che nella smorfia individua la paura; “La paura è un'intensa emozione derivata dalla percezione di un pericolo, reale o supposto. È una delle emozioni primarie, comune sia alla specie umana, sia a molte specie animali (wikipedia)”. La paura dell’ignoto è, forse, l’unica vera paura ad aver ragione della ragione, ad intrappolare il cuore in battiti senza tregua, a non poter essere sconfitta se non con un atto di coraggio estremo: al ignoto non ci si rassegna; l’ignoto va affrontato a fronte alta, petto in fuori e , poi, sia ciò che deve essere!.
Quando ottantanove fossero gli anni di vita vissuta da una persona, chiunque ella fosse, sarebbero comunque un pesante fardello da portare; sarebbero una immensa fonte di esperienza; potrebbero costituire una sorgente continua di saggezza; un lasciapassare garantito “free” per quel confine oltrepassato il quale esiste un oceano infinito di ipotesi e teorie e credi di cui nessuno, mai nel tempo passato e parimenti per il futuro, ha alcuna certezza né riferimenti possibili o anche solo probabili.
Quale che fosse la vita vissuta, bella o brutta, buona o cattiva, ottantanove anni e, a maggior ragione il di più, dovrebbero costituire, a prescindere, quella espiazione necessaria e già espiata affinché un dopo, il dopo, non fosse un “essere” da temere. Nel suo insieme la vita di chiunque è inferno, purgatorio e paradiso; non esiste al mondo qualcuno che abbia solo esperienze negative, solo esaltazioni gioiose, solo cattiverie, fatte o subite, solo bontà rese e ricevute. La vita è un orologio a pendolo ed il suo tic tac non ha false oscillazioni e non genera onde anomale: quando quel orologio si ferma, comunque il pendolo è bloccato al centro.
Eppure, nessuno di noi ha questo tipo di sentire; molto pochi hanno il coraggio di una coerenza di fronte agli ultimi istanti. Alcuni affidano l’anima a quel dio in cui hanno sempre creduto; altri lo fanno per intima speranza di essersi sbagliati nel non credere; altri ancora perché pentiti del solco lasciato durante il cammino; quasi nessuno si chiede se quel dio si chiami veramente “padre nostro” o Allah o Visnù o Manitou o Osiride o abbia un qualsiasi altro nome; negli ultimi momenti, siano essi determinati e naturali, patologici, indotti o, disperatamente auto indotti, l’ultimo pensiero sarà solo “… Dio! …” a benedire o a maledire. E nemmeno l’estremo disprezzo dell’ateo avrà più alcun valore se è vero come è vero che anche l’ateo nega solo in funzione di qualcosa di diverso e/o migliore.
Gli occhi, la voce, le spalle, il portamento, l’andare di un ottantanovenne dovrebbero essere lo specchio del suo passato; l’indicazione di quel tanto di futuro che ancora gli resta, l’emblema di quella chiarezza e coscienza di un totale non preoccupante, ma rilassato e soddisfatto. Avercene di questi esempi da portare ad esempio, sarebbe un modo per dire: Beh!, allora niente è perduto!.
Non è così!. Le mosche bianche non fanno statistica ed io ho pena per quelle persone che arrivati alle soglie di un futuro che nella migliore delle ipotesi conta gli anni a venire sulle dita di una mano, sono, invece, lo specchio di una delusione, di una coscienza di un tradimento fatto e subito, di una coscienza di un vuoto pneumatico esistenziale, di un barcamenarsi perenne tra questo e quello, tra interessi privati, vizi nascosti e pubbliche virtù. Ho compassione per coloro i quali si accorgessero al improvviso di aver millantato un sacrificio e di essere stati, invece, solo degli oggetti e mai soggetti veri di una passione, di uno scopo, di un obiettivo, tutti e ciascuno, spesso e addirittura altrui e nemmeno propri. Provo persino dispiacere per quel trasudare tristezza di chi, forse e finalmente, ha la distinta ragione di aver sciupato malamente la propria vita.
Non c’è uomo che possa dire prima come sarà la propria vita; non c’è carica che sia di per sé intellettualmente scevra da sbagli o da parzialità; non c’è traguardo che sia giustificabile o esaltabile prescindendo dal cammino che è stato usato per arrivarci.
Come diceva il grande Totò: “ … è la somma che fa il totale!”. Mostrarsene stanchi, pentiti, dispiaciuti o sofferenti non vuol dire finalmente “essere” è solo ed ancora una volta …

l’ennesimo apparire!.