… je so’ pazz’ … - di Francesco Briganti

21.03.2016 10:20

La “incapacità di intendere e di volere” nei tribunali e dagli avvocati difensori, in special modo, è spesso riportata come causa giustificante il comportamento oggetto della discussione e per grave che questo sia molte volte, quasi sempre, essa allevia la posizione dell’imputato rendendolo al mondo quasi una vittima obbligata che un colpevole manifesto. La cosa di per sé è senz’altro giusta, ma come tutte le cose lasciate, poi, alla valutazione umana, trova sempre due almeno due sfaccettature: quella degli assertori della gradualità della colpa e quella degli intransigenti, dell’una e dell’altra parte.

Il dispositivo dell’art. 85 del codice penale recita: “ Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se, al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile (1). È imputabile chi ha la capacità d'intendere e di volere(2). “

Dunque, secondo il codice penale, l’imputabillità di un soggetto è prioritaria rispetto a qualsiasi altra valutazione; è imputabile chi abbia raggiunto il grado di maturità necessario a distinguere tra lecito ed illecito e tra bene e male; per convenzione sociale si ritengono non imputabili, salvo diversa valutazione, i minorenni e tutti coloro che per loro disgrazia siano mentalmente compromessi per patologie innate o sopravvenute. Per tutti gli altri in esame non vi sono eccezioni possibili in un contesto normalizzato a regole ed a canoni precisi ed accettati da tutti.

Solo dopo queste considerazioni entra in gioco l’eventuale “capacità di intendere e di volere”: era il soggetto in esame capace nel momento del fatto?; e se loro era, aveva la libera scelta nella sua decisione?; ciò che ha fatto, cioè, era una senziente decisione o vi era da qualcosa quasi obbligato?.

Facciamo un esempio di scuola: un uomo che uccida una donna o, viceversa, una donna che uccida un uomo, in presenza di un tradimento, per quanto l’una o l’altro, rispettivamente ed oggettivamente capaci (di intendere e di volere; ndr) considerando tutte le implicazioni possibili derivanti dalla scoperta, dalle frustrazioni, dalla vergogna, dalla rabbia, dalla delusione, dal crollo di progetti e sogni, dalla soggettiva sensazione del ridicolo derivante, dalla consapevolezza della propria impotenza di fronte al fatto stesso ed alla sua immutabilità e chi più vuole più ne aggiunga, quell’uomo o quella donna possono essere giustificati in qualche misura?; si può in qualche misura alleviarne la colpa e quale dei due è effettivamente vittima e chi è il carnefice?; si può instaurare un rapporto di mandato tra la vittima ed il suo assassino?.

Tutto ciò, sopra descritto, può inquadrare uno stato di necessità, quasi un obbligo psicologico e materiale ad un determinato comportamento?.

Lo stato di necessità è una causa di giustificazione prevista dal codice penale italiano all'art. 54:
« Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo. » (wikipedia; ndr)

Quanto più sopra descritto si può considerare come possibile danno grave alla persona?.

Senza voler, qui ed ora, fornire una risposta per la quale non avrei nessuna qualifica e che richiederebbe ore di discussione in una qualsiasi aula di tribunale e settimane, forse mesi ed anni, se trasferita in un pubblico dibattito, io, però, non possono esimermi dal chiedermi perché le stesse valutazioni, fatte nell’ambito del penale, non si fanno mai nell’ambito del civile quotidiano, nel rapporto esistente tra la politica ed i cittadini, tra il cosiddetto bene comune e il singolo bene privato, tra il diritto ad una vita dignitosa ed una condizione indegna, tra i dettami di una Costituzione mai attuata ed una realtà di sopraffazione, di sfruttamento di abuso e sopruso, tra il raccontato ed il vero da ciascuno vissuto?.

Come mai questo stato, da anni ormai, non considera mai lo stato di necessità di un cittadino costretto a scegliere tra un danno alla propria persona e l’ubbidire a leggi sempre più limitanti quella stessa capacità di scelta, come mai quel supposto danno alla persona non implica una conseguente incapacità di intendere e di volere e dunque una PRIORITARIA IMPUTABILITA’ e conseguente NON PUNIBILITA’ DELLO STESSO?.

Forse perché nessuno ci ha mai dato lo spunto a rifletterci su? O forse solo perché abbiamo deciso CHE SIAMO INCAPACI, non solo di intendere e di volere, ma ANCHE SOLO DI DIFENDERCI?.

Bene , infine e per chiudere, forse je so’ pazz’, ma credo che occorrerebbe riflettere su queste cose, ognuno traendone le proprie conclusioni; per quanto mi riguarda, io in piena coscienza affermo che chiunque disubbidisca a questo stato di merda non fa altro che porsi nella condizione esistente …

tra un mandante ed un soggetto che ne esegua il mandato!.