… la grande bellezza … - di Francesco Briganti
Rimini. Alba appena accennata. Piove!, piove che il dio delle tempeste ne ha dimenticati aperti i rubinetti. Duecento metri ed il mare. Onde alte, lunghe, ad infrangersi costanti e affamate su di un tratto di spiaggia color sabbia bagnata di un lungomare deserto ed appena accennato nella fioca luce del giorno in divenire: poco distante un pontile si allunga verso est più temerario che solido ad affrontare i cavalloni e a sfidarli tra spruzzi di spuma e sparizioni improvvise sotto quelli più alti e violenti. Piccola e lontana, forse un miraggio, una piattaforma di ricerca sembra lanciare un s.o.s verso una, propria, sognata, casa lontana.
Scrosci!; violenti, continui ad infrangersi sui vetri di una finestra custode e carceriera di una notte insonne in una camera d’albergo: squallida, come solo quelle dimore sanno esserlo nella loro simile uguaglianza in ogni dove per quanto belle, brutte, misere o lussuose esse siano. Solitarie come la solitudine di chi vorrebbe essere altrove senza sapersi dove e come può esserlo quella di chi vorrebbe essere altro senza sapere cosa mentre resta con lo sguardo perso in quel mare aggressore che ha di fronte e che lentamente, molto lentamente, riemerge a fatica dalla notte che va scomparendo alle sue spalle vinta dalla luce che ancor più lentamente nasce all’altro orizzonte.
I pensieri volano su quelle onde e “surfano” da un onda all’altra incontrollati ed incontrollabili; i staccano dalla tavola ad ogni discesa inseguita dal mare e presi dal vento veleggiano tra le nuvole basse, nere e pregne di pioggia in attesa, per poi riprenderne possesso vincendone la cresta nell’attardarsi ai ricordi vicini e lontani frammisti insieme in un caleidoscopio di sentimenti ed emozioni a far da testimoni casuali al dolore di un legamento rotto vero colpevole di questa ennesima notte bianca sofferta e di certo non festaiola.
Rimini ed il lavoro. Impegni da mantenere per onorare il proprio essere prima che i propri impegni: sorriso sulle labbra, mente sgombra, affabilità spontaneamente forzata d’abitudine ed un andare da uno studio all’atro in un cammino giornaliero ad un ritmo circadiano che non conosce soste mentali per quante pause materiali possano frapporsi tra una visita e l’altra con una crisi mondiale divenuta tutta italiana a fare da fil-rouge conduttore di ogni discorso essendo prologo o epilogo di ognuno di essi. Risultati possibili, qualcuno probabile, pochi certi e solo da concludere; il tutto, comunque, non più gioco e soddisfazione di vita, ma guerra amara e necessaria che, vinta o persa nella sopravvivenza quotidiana, lascia cadaveri mentali al termine di ciascuna battaglia quand’anche si fosse vincitori.
“ … non siete altro che venditori di spazzole … “ diceva uno stupido culone assiso dietro la propria ignave scrivania non sapendo o avendo dimenticato di quale e quanta professionalità, arguzia, conoscenza e psicologia occorra essere padroni per fare bene quella libera professione che fa da contraltare a chi per la propria attività, di mestiere o professione,ti incontra nell’incertezza dei “ vorrebbe, non vorrebbe, potrebbe, non potrebbe” che limitano e delimitano desideri e propositi in partenza già battuti dalla pressione economica e finanziaria generale. Stupidi culoni ed ignave scrivanie comunque dimentiche dei milioni in euro che in anni di lavoro altrui, hanno messo in tasca al netto di ogni spesa possibile quando si fosse, e non sempre è così, imprenditori accorti, onesti e rispettosi dell’intorno e degli intorni di ciascuno degli altri.
Ed è così, che dietro i vetri di quella finestra flagellata di pioggia e assordante nel ticchettio continuo di quell’acqua a battere sui vetri torna alla mente il dramma di uno scrittore americano, quel Artur Miller autore di “Morte di un commesso viaggiatore “ che nulla a che vedere con te e con la tua esistenza eppure, che rimanda una malinconia perniciosa ed affaticante che ti lancia in un sospiro dietro l’altro a sperare che torni a splendere il sole, smetta di piovere e le onde si calmino permettendoti di sguazzarci dentro in uno spensierato bagno di riposo, fisico e mentale, finalmente sazio di un paese normalizzato ad una vita degnamente dignitosa dove ognuno e ciascuno abbia non la speranza, ma la certezza che ogni giorno è il proprio giorno: un giorno in più da vivere e non un giorno in meno in attesa di quell’ultimo tuffo fuori da quel mare in tempesta che ti permetta, come sarebbe ed è giusto, l’approdo su una paradisiaca spiaggia assolata.
Rimini di inverno: un po’ triste solitaria ed abbandonata. Come questa Italia: di ieri, di oggi e di domani!.