… la quiete dopo la tempesta … - di Francesco Briganti
… certe volte si vorrebbe essere altrove, essere qualcun altro o comunque avere un diverso modo di pensare e di essere; certe volte non ci sono se e non ci i sono ma sufficienti a giustificare, a dare un senso, a spiegare o anche solo utili per darsi una ragione. Certe volte le coincidenze diventano ipotesi, le ipotesi si traformano in fatti ed i fatti diventano un fattore immaginario che niente ha da spartire con la realtà …
Non amo gli spazi angusti. Non è snobismo, non è abitudine ad un lusso cui non sono avvezzo, è claustrofobia; è bisogno estremo, improvviso ed improrogabile di aria fresca e mobile che scompigli i capelli faccia rabbrividire la pelle e renda in maniera crescente quella sensazione di libertà, libera e disinibita, in fuga da una cella che sia fisica o mentale e proietti vero orizzonti senza fine e confini. Allo stesso modo odio la confusione di quei luoghi affollati in cui ci si urta di continuo in un susseguirsi di inutili “mi scusi”, “perdonami”, “ ops”, forieri ognuno di manifesto vicendevole disinteresse o di animaleschi rapporti fini a sé stessi e raramente conseguenza di qualcosa di serio e costruttivo.
Odio quel vocio indistinto che diventa cacofonico e assordante in un crescendo maligno frustrante e faticoso fino al momento in cui nessuno ascolta più neppure ciò dice a sé stesso ed il tutto è solo una bolgia indistinta e paranoica.
Eppure, non amo la solitudine quando questa non sia una scelta ponderata. ma si risolva in una conseguenza di qualcosa, qualsiasi cosa; ed è per questo che i miei succedutisi domicili hanno sempre avuto una capienza ospitativa sfruttabile e sfruttata; ed è per questo che queste feste hanno visto la mia casa mostrare una densità abitativa a livello di una città come Portici (Na; ndr) o come Hong Kong: frizzi, lazzi, cotillions e, poi, da stamane l’esodo del “ … ognuno a casa propria …”: baci, abbracci, una lacrima fuggevole indirizzata al quando poi ci rivedremo e … via; sorella, cognato e nipoti già abbastanza in la sulla strada del ritorno e gli altri, un tanto all’ora, a seguirli, ciascuno in una direzione, ciascuno già preda e protagonista del prossimo venire.
La casa riprende lentamente i suoi tempi ed i suoi spazi; riacquista atmosfere abitudinarie, riaccetta, di buon grado, quelle voci che dalla porta finestra aperta sul giardino, assieme all’aria stranamente calda di questo mattino di gennaio, entrano a parlar di tordi e tortore, a raccontar di stormir di foglie e cigolii di rami, a svelare immaginifiche traduzioni di latrati lontani o di miagolii in cerca d’autore: rende, nuovamente, quelle sensazioni di routine che fanno di un letto, un bagno ed una cucina quel nido rifugio a cui ognuno ambisce ed a cui tutti dovrebbero aver diritto inalienabile, indiscusso ed in indiscutibile.
Fuori piove di quelle gocce fitte e persistenti; la strada ha il proprio invernale aspetto di arcipelago d’asfalto con isolotti sparsi, tra una pozzanghera e l’altra mentre, al suo fianco, corre quel uliveto pascolo perenne di uccelli in decollo ed atterraggio ora a ghermire un verme, ora una oliva ora briciole di quel pane smollicato lanciato lì apposta per rendere più facile e fruttuosa una ricerca.
Oggi è sabato ed è un giorno di riposo, precede una domenica vigilia di quella Befana protagonista di quegli ultimi, grandissimi quandanche piccolissimi, pensieri di chi ama essere soggetto ed autore di una tradizione, sentita italiana e familiare, oramai in via di sparizione e sommersa dalle tante e tante, divenute in auge, americanate. Memoria di quei tempi in cui lo spread sopra o sotto quota duecento non era interesse di nessuno; di quei tempi in cui il fare era un dovere e non un’ennesima promessa; in cui l’onestà, il rispetto, la dignità e l’onore erano uno status e non quella eccezione ricercata come l’araba fenice o quel famosissimo ago sperso in un pagliaio.
Dunque la Befana; poi, poi tutto e per davvero sarà concluso. Lasciati dietro le spalle addobbi e palle e luci intermittenti si torna alle gioie, alle speranze, alle illusioni, ai dispiaceri, alle disillusioni, alle vittorie ed alle sconfitte anch’esse divenute figlie, legittime ed illegittime, di usi e costumi di un paese non più paese con sempre meno santi poeti e navigatori e più puttane, lestofanti ed indagati stanziali e auto referenti.
Si torna a quel tran tran d’uso, ma questa volta forti di quell’unica certezza che spinge a chiedere ed a chiedersi: “… se non ora … QUANDO?”.