... palla al centro ... - di Francesco Briganti

01.12.2015 10:06

Si giocava a Brozzi. Era la finale per il terzo e quarto posto. Era una sera di tarda primavera ed eravamo giovani, di belle speranze, di sogni in crescendo, di fisicità prorompenti. Eravamo la squadra di via del Proconsolo al N° 7 ed eravamo un coacervo di studenti, quasi tutti di medicina.

Avevamo di fronte il "resto del mondo": ragazzi iraniani, israeliani, allora ancora questa commistione era possibile, inglesi e polacchi giocavano sotto la stessa casacca, mandandosi, così come facevamo noi del resto, bellamente affanculo, comunque esaltandosi e godendo di un passaggio riuscito o di un tiro mancato.

Che anno fosse non me lo ricordo più: forse il settantotto, forse il settantanove; i riflettori del campo illuminavano ventidue energumeni, stracolmi di ormoni ad uscire dagli spogliatoi; sugli spalti le ragazze di ognuno e non, femministe del momento, esaltate a commentare ed a tifare con linguaggi che avrebbero fatto arrossire uno scaricante di porto: minigonne a palla che ballavano e scoprivano quel tanto che bastava a che più di uno sul campo, pensasse al dopo partita più che al pallone.

In campo e fuori la gioia di vivere senza perché e senza problemi. Eravamo quelli che avrebbero cambiato il mondo, ma non quella sera dedicata al puro e sacrosanto divertimento ... E si comincia!.

Sulla linea di porta, un metro e novantadue per novanta chili di peso, sparavo pose da semidio con fare indifferente e noncurante; davanti avevo a destra Dimytri, greco per nascita e roccia dura da affrontare, fiorentino d'adozione, ed a sinistra Giovanni, tecnico dell'Enel che ci aveva insegnato come fare per bloccare il contatore.

Dalla linea della nostra trequarti in su, c'erano, in una confusione tattica che avrebbe ucciso Liedholm, Pino mediano dai quattro polmoni, Luciano ed Angelo, mio fratello, entrambi di classe pura e cristallina, Maurizio ala destra alla Domengini, Vassily, cugino di Dimytri e centravanti di sfondamento, Ugo filosofica mezzala, Ettore, geniaccio sinistro, e Lillo che più che giocare raccontava barzellette agli avversari nella speranza di sorprenderli con una battuta spiritosa per poi andare in gol. Natale, a fare da allenatore e tecnico, dalla panchina più che schemi urlava bestemmie ed imprecazioni varie secondo le quali la maremma nasceva puttana e moriva troia.

Loro erano bravi, forse più che bravi, certamente migliori di noi. Fu uno scontro in cui il cuore, il nostro, si confrontava con l'organizzazione e con lo spirito di chi, straniero voleva dimostrare una valenza quasi a riscattare una condizione di ospite, antesignano di una posizione futura. Furono novanta minuti di lotta senza quartiere; due tempi in cui il calcio più volte fu sconfitto dai calci di chi, beffato e lasciato sul posto da una finta improvvisa o da un colpo, di classe o di culo estremo, si vendicava bellamente chiedendo subito dopo delle sfrontate ed invereconde scuse.

Perdemmo di misura, ma senza drammi né traumi; la serata finì, per tutti, nel ristorante di Mauro, nostro amico e soccorso in tempi di magra, in via dell'Erta canina, chi sa se c'è ancora, dove ci accolsero, lui e la moglie, eravamo una folla, con un po' di timore, ma contenti di aver svoltato la serata.

Poi fu piazzale Michelangelo. Il vino, quale vino?, a fiaschi da due litri, duecentoventi lire compreso il vuoto, era corso a fiumi; il più sobrio di noi cantava l'inno di Mameli frammezzandolo con bandiera rossa o con Alice guarda i gatti, nella stessa confusione che aveva regnato in campo. Ci si abbracciava e rideva; ci si rammentava quella azione o quell'altra in una promiscuità senza legami e o preferenze che non fossero quelle oramai consolidate e codificate. Del dopo; di chi dormisse dove e con chi, è meglio tacere.

Quello che, oggi, rimane impresso nella memoria, quella memoria sollecitata da un'altra battaglia agonistica, vissuta per interposte persone ieri sera, è l'atmosfera di allora, è quella spensieratezza giovanile capace di sotterrare ogni preoccupazione, fosse finanziaria e ce n'erano, o scolastica, sotto l'incoscienza di certi momenti, del tutto assenti nei giovani di oggi, di una età capace di astrarsi da un futuro che certo non sospettavamo fosse quello in cui, tutti noi, oggi viviamo.

C'è molta amarezza in questo nostalgico ricordo; c'è amarezza e delusione;c'è un pizzico di angoscia e di compatimento per quei ragazzi, i nostri ragazzi, che oggi, quand'anche giocassero a pallone, sanno sin dall'inizio che al fischio finale ...

la partita nemmeno sarà cominciata.