Se potessi mangiare un’idea … - Francesco Briganti

19.08.2013 08:55

Sono stato studente universitario per dieci anni. Ho frequentato Medicina a Napoli, poi legge a Catanzaro, poi di nuovo Medicina a Firenze. Non meravigliatevi, il tutto è stato possibile perché la mia prima rinuncia non fu mai registrata e quindi fu possibile ritornare a studiare da medico facendo lo gnorri. Non ho finito gli studi, la testa non era buona, troppe distrazioni, troppe cose in contemporanea, lavoro, politica, carte, cavalli, pallone, donne o, forse, semplicemente non era destino. Probabilmente è stato meglio così, magari se avessi concluso una cosa piuttosto che l’altra qualcuno, questo è certo vista la mia particolare fortuna, prima o poi avrebbe notato qualche incongruenza e tutto sarebbe crollato come un castello di carte. Eppure, per tre mesi, ho fatto il medico e non abusivamente. Da studente, e come tale, ho frequentato il reparto di medicina ogni giorno, visitavo i nuovi ricoveri, stilavo cartelle cliniche, auscultavo spalle e, dalle sette di mattina, ero il primo ad arrivare e tra gli ultimi ad andar via. Non ho mai studiato tanto come in quei tre mesi. Ricordo che il primario, durante il giro pazienti, soleva chiedere ad assistenti e tirocinanti non solo le notizie anamnestiche, ma anche di fisiologia, patologia e semeiotica, per cui, dopo il turno trascorrevo il tempo che mi separava dal giorno successivo impegnato a non fare figure barbine per il prosieguo. Lo facevo seriamente al punto che i malati mi subissavano di omaggi, dalle sigarette alle uova, dalle bottiglie di liquore alle soppressate, ogni giorno ricevevo qualcosa; giuro che, ma forse solo perché avevo il “mariuolo” in corpo, ho sempre lasciato tutto nella stanza dei medici e non ho mai portato via nulla. Smisi di andare in ospedale e abbandonai l’idea di diventar medico il giorno che, anche tra le mie braccia, il padre di un amico moriva soffocato dall’essudato conseguente ad una polmonite non curata. Ritornai definitivamente a casa qualche mese dopo quando mio padre mi chiese di prendere una decisione concreta: continuare e finire o cominciare a lavorare per il futuro: avevo ventinove anni e tra periodo nell’esercito e università, dieci anni della mia vita se ne erano andati senza che me ne accorgessi e, a parte le esperienze fatte, senza nessun altro costrutto. Dal 16 novembre 2011 ad oggi, ma potremmo tranquillamente datare il periodo comprendendo gli ultimi vent’anni, in questo paese, gli italiani hanno vissuto la loro vita tra le più travagliate e, perché no?, meravigliose vicende; hanno assistito all’ascesa ed alla caduta di questo o di quello, hanno creduto in tizio ed in caio piuttosto che in sempronio; hanno indirizzato la loro vita cogliendo o rifuggendo da un’occasione, da una opportunità o da una scelta politica; hanno creduto di decidere della loro vita e del loro futuro in perfetta libertà e coscienza; pochi, molto pochi si sono soffermati a pensare seriamente a cosa stessero vivendo, a quali le determinazioni di ordine generale da intraprendere, quali le azioni necessarie a che il bene comune avesse il sopravvento su quello personale e egoisticamente soggettivo. So bene, che ogni scelta fatta è stata in realtà ponderata e che la mia affermazione è paradossale, ma quello che voglio dire è espresso benissimo dai versi di quella canzone di Gaber cui mi sono rifatto più sopra: “ … se potessi mangiare un’idea, avrei fatto la mia rivoluzione …”. Ecco, nel corso della nostra vita, pochi o forse nessuno, mangia e digerisce l’idea del quadro d’assieme, della consecutio rerum, della scelta in funzione altruistica e finalizzata ad un obiettivo comune, ad un orizzonte che non sia quello del proprio orticello ma quello dei confini di tutti e quindi di ognuno. Così come nel mio caso ed in quei dieci anni io ho poco pensato a quello che poteva essere un futuro in chiave di una famiglia, di probabili figli, di utilità alla società ed al paese intero, così in questi ultimi vent’anni e forse dal dopo guerra in poi, in Italia si è pensato ed agito in una chiave e soggettiva o di interessi di bottega e, al più, in quella partitica o di appartenenza ad una sinistra ed ad una destra, comunque anch’esse, entrambe e rispettivamente, non più destra e non più sinistra, al di fuori ed estranee ad ogni e qualsiasi puzzle finalmente completabile e rispondente alle esigenze ed alle condizioni di un presente difficile quando non disperante e del tutto dispersivo. Leggo stamane sui giornali le solite chiacchiere di sempre: Letta qui, Berlusconi là, Grillo sopra, Napolitano sotto, Renzi un po’ al di qua e un po’ al di là e noi tutti, ballando intorno, ad accalorarci, ad osannare o a denigrare e nessuno, anche solo, a cominciare a pensare di fare qualcosa di concretamente risolutivo. Il Titanic affonda mentre l’orchestra continua a suonare sul ponte. Temo che gli iceberg continueranno a vincere mentre si perde nel caos un S.O.S che nessuno raccoglie … O, forse, E’ SOLO QUESTO IL DESTINO!.