… tu chiamale se vuoi … - di Francesco Briganti

07.12.2015 09:32

Via del Praticello, in quel di Forone, è un sentiero tra i boschi che si inerpica lungo il fianco della collina che separa il borgo da Torricchio. Asfaltata per i cinquanta metri iniziali, lungo un appezzamento erboso, mare verde ondeggiante al soffio del vento e grande quanto un campo di calcio, e per i cento, centocinquanta metri terminali a correre lungo un allevamento di polli ed un altro di anatre, è il tipico sentiero lungo il quale potreste tranquillamente ambientare l’abbandono di quel tal Pollicino di favolistica memoria. Quando poi, vi ci inoltrereste, come a volte capita a me, in un’alba non ancora schiarita, immergendovi nella nebbia densa che ne trasforma l’andare in un muoversi ai piedi del castello del conte Vlad, allora tutti i dettagli decritti da Brian Stoker vi camminerebbero al fianco suggerendovi di accelerare il passo e di guardarvi, di tanto in tanto, alle spalle.

Occhi rossi, fissi e penetranti, si accendono improvvisi da un lato o dall’altro del cammino; a volte alti su rami appena visibili ed accompagnati dai versi di un gufo disturbato nella sua caccia; a volte radenti quel sottobosco ad attutire i passi ed a frastornare quell’involontario pensiero a chiederti: “ ma chi cazzo te l’ha fatto fare … “; altre ancora a frusciare preoccupanti alle tue spalle, più sentite che viste, istillano il desiderio di girarsi a controllare, subito frenato, però, da quell’altro, altrettanto istintivo, figlio della paura di scoprire qualcosa di spiacevole mentre davanti e sopra la testa una coltre di panna ovattata ricopre ad attutire, amplificandone ognuno, ogni singolo scricchiolio e riporta, più che riflettere, tetre le luci sul uscio di qualche casolare smarritosi tra gli alberi più lontani.

E’ un brivido continuo a correre gelido lungo la pelle; è un andare sicuro dell’abitudine, ma del tutto avventuristico quando non fosse concentrato ed attento ad ogni singola asperità memorizzata: qui un folto spinoso cespuglio di more, lì una robusta radice affiorante, poco più oltre quella fossa in eterno coperta da quel fango umido ed appiccicoso che la galleria da chiome querciose impedisce al sole di asciugare a terreno calpestabile.

Più su, vero la metà dell’erta, quell’improvviso spiazzo ad aprirsi sulla sinistra quasi fosse l’ingresso respiratorio di un altro mondo alieno all’alieno precedente; quando c’è ancora una luna, sopra tutto se piena con tutte le proprie suggestioni, a resistere all’avanzata del sole, in quello spazio, ad averne il coraggio, si può assistere al sabba infernale di ogni corpo di nebbia a danzare.

Soffiasse una brezza leggera o il più forte dei venti invernali, come il canto delle sirene di Ulisse, quella eterea danza ti attira, ti ammalia, ti invita ad unirti ad essa, bloccando, quasi paralizzato il tuo passo. Di sottecchi sbirci cercando di resistere alla voglia inconscia e apneica del desiderio di immersione nell’ignoto supposto, ma è, proprio in quel punto e nel momento del coraggio folle, che un ululato lentamente a trasformarsi in un lamentoso guaito, spinge da dietro la tua schiena e dice alle tue gambe: “ … corri, cazzo, corri … “ e ti ritrovi in un baleno oltre quella apertura che sparisce alle tua spalle, quasi non fosse mai esistita: senza lasciare traccia, neanche sonora, quasi che qualcuno ne avesse girato l’interruttore affievolendone lentamente il bagliore.

La volta di querce lascia cadere qualche ghianda stanca di altezze celesti; su, tra l’alto più frondoso, qualche sprazzo più chiaro di giallo paglierino si insinua tra l’ovatta e dietro le tue spalle il sole, basso ancora sulle cime delle colline pistoiesi, fa capolino cominciando a sciogliere ed a diradare quella coltre che aveva racchiuso in sé il tuo precedente cammino. Il calore di quel raggio, al par tuo temerario ed esploratore, riscalda poco a poco ed asciuga l’ultimo brivido lungo la schiena.

Ti fermi; atteso qualche secondo, forse un minuto o due, ritorni sui tuoi passi sino alla radura dei fantasmi danzanti: la nebbia sempre più rada, fluttua, adesso, leggiadra e chiara, non sembra più contorcersi in lascive prese ossesse ed ossessionanti; l’astro mattutino, sempre più alto, accende i colori e sintonizza i particolari e vedi la radura per quello che è: un arioso respiro della natura a rappresentare un oasi dove già uccelli di ogni tipo, qualche mattiniero scoiattolo e un cucciolo a scodinzolare si apprestano alla loro prima colazione.

Guardi riguardato, ma non c’è un invito ad entrare ed anzi son tutti lì pronti a fuggir via dalla tua presenza quasi a testimoniare ed a confermare che nel infernale sabba notturno saresti un abituato bene accetto, ma a quel diurno paradiso terrestre …

Nessuno ti vuole, neanche per sbaglio!.