… tutto scorre … - di Francesco Briganti

05.10.2014 07:52

Quello che restava della vernice originale si vedeva a malapena e anche se rifletteva i raggi del sole al tramonto quel giallo, una volta brillante, risultava smorto, rassegnato, quasi in attesa che la ruggine già ovunque vincitrice giungesse a seppellirlo senza pietà e misericordia. La panchina a quella fermata di autobus aveva visto tempi migliori, esattamente come la sorta di riparo, oramai arresosi all’incuria umana piuttosto che al trascorrere del tempo, in cui fungeva da seduta per quei pochi che, stanchi di aspettare, vi si poggiavano senza rinunciare all’attesa, ancora credendo in un arrivo mai puntuale.
Alle spalle di quel riparo sfondato e graffitato oltre ogni umana comprensione, instabile come un cane ferito dopo una lotta feroce, dispersa, tra ruderi di antiche vestigia, una montagna di maleodorante spazzatura ricordava a tutti ed ad ognuno quanto il malessere oscuro di una società in decadenza fosse evidente e sbandierato in quella periferia mai considerata civile e sempre più ghetto, rifugio e rifiuto di esseri al limite di ogni sopportazione possibile.
Seduto perso in un mondo lontani anni luce dal presente un uomo poggiava la fronte sul bastone ritto tra le gambe e stretto tra le mani. Ai suoi piedi un vortice di foglie ingiallite interpretava un vortice ventoso la cui melodia, a volte festosa, a volte imperiosa, a volte sinistra si insinuava tra le fessure del plexigas per poi risalire sulla tettoia in lamiera solleticandone le vibrazioni e quindi ridiscendere a lambire le vesti lacere e sporche dell’uomo i cui anni sembravano perdersi nella notte dei tempi per chi ne avesse avuto l’onere di incontrane lo sguardo.
Canuto, sembrava soccombere sotto il peso del grosso, consunto paletot; le mani rugose stringevano al limite del pallore il manico del bastone quasi fosse il suo unico ed ultimo legame con una vita dalla quale, pur desiderandolo, temeva staccarsi.
Sollevava, di tanto in tanto, pesantemente la testa e spingeva lo sguardo ora a destra ore a sinistra, poi, più rassegnato che deluso ritornava a guardarsi scarpe che mai avevano conosciuto tempi migliori: erano nate vecchie e sbagliate, come tutte quelle che circolavano, con fiero imbarazzo, per quelle strade rionali più piste da cross che vie di una città desolatamente allo sbando.
Era lì da ore. Gli sembrava di ricordare d’esserci arrivato che ancora il sole non aveva segnato il proprio culmine; si era seduto più cadendoci vittima della gravità che per scelta cosciente. Non aveva un buon odore; il suo insieme faceva tutt’uno con un intorno sempre più vuoto man mano che gli astanti ne avvertivano, al naso, la presenza; avesse dovuto dire quand’era stata l’occasione dell’ultima doccia avrebbe mentito spudoratamente prima a sé stesso e poi agli altri. Vagava, con l’altrui mondo a lasciargli strada al semplice suo apparire, di continuo per quei vicoli, ovunque sporchi e rumorosi e per quelle strade inzaccherate di fango secco quando non pioveva e di escrementi animali ed umani negli angoli bui; la mattina apriva gli occhi stupito, ogni giorno di più, di esserci ancora una volta riuscito e tirava le ore in attesa di quella sera, ogni sera, in cui chiusi gli occhi covava il desiderio di un non risveglio: sempre più debole aveva persino smesso di cercare nei rifiuti dei rifiuti; campava d’acqua, piovana, sporca, infetta, putrida, eppure sembrava che il suo corpo vaccinato da anni di disillusioni e sofferenze, pur in un crescendo continuo di una rassegnazione scelta e voluta, fosse refrattario ad ogni attentato, cosciente e non, che lui immancabilmente attuava.
Non aveva più gran memoria dei suoi tempi passati; aveva scacciato dalla propria testa le adunate oceaniche; le promesse pronunciate nell’esaltazione degli attimi vittoriosi; le menzogne scuse manifeste per le rinunce e per i ritardi; le mezze verità, i compromessi, le lusinghe, la fideistica adesione di falsi amici e lecchini in attesa di quella parte da sfruttare complice, conseguenza e figlia di una frase traditrice pronunciata come profferita da un fratello, concepita come il bacio di Giuda, ascoltata come una condanna a morte. Aveva seppellito sotto il manto sempre più nero dell’odierno scorrere strascicato di piedi stanchi sotto gambe gonfie e pesanti di croste e lerciume una ascesa improvvisa e un trono raggiunto anzitempo; l’immersione PRETENZIOSA, sfacciata e sfrontata in un mondo a cui non era preparato; lo sforzo immane e pur colpevole di chi conoscendo la propria insufficienza aveva sfidato gli dei dell’inutile sul loro campo senza temerne la lunga, paziente, sottile, drammatica, mortale vendetta; il progressivo sfaldarsi della propria debole violenta imposizione.
Le ore erano trascorse, compagne malevoli dei suoi pensieri, perdendosi nello stupore dei viandanti in attesa, negli sfottò dei ragazzi a passare, nello schifo di chi costretto a stargli vicino ne sentiva il puzzo e ne veniva spaventato dagli inconsulti tremiti improvvisi.
Restava, però in quella mente confusa, ben impressa la caduta, inevitabile, prevedibile, giusta. L’abbandono sorte dei furbi scoperti, dei falsi messia, dei finti mecenati, degli mistificatori poco intelligenti. Fosse stato solo un po’ più paziente avrebbe magari evitato di fidarsi degli amici, quando mai lo fossero stati; il tradimento dei seguaci immediatamente pronti alla salita sul carro di un successore al solo avvertirne la probabile presenza; l’amarezza di una finalmente cosciente stupidità e la vigliaccheria dei primi momenti di verità quando, cieco all’inevitabile, ancora aveva creduto di essere il vero ed unico unto dal signore.
Ora esisteva solo in quanto SOPRAVVISSUTO dimenticato e suicida morente di una inedia troppo lenta a soddisfare il proprio bisogno di castrazione: voleva sparire e dopo infiniti rinvii aveva deciso: si può imbrogliare qualcuno per lungo tempo, si può farlo con molti per un tempo breve, non si riesce mai ad imbrogliare sé stessi; non avrebbe atteso un'altra, ennesima, alba.
La sera era calata impietosa sulla fermata del bus lontana da ogni lampione; l’uomo, ombra confusa tra le ombre, restava immobile come statua nelle intemperie e solo un bavero flaccido svolazzava al vento quando questo, scorbutico, infieriva sulla figura senza convincersi che non l’avrebbe scalfita. Lontani, appena accennati e pure nascosti dalla cieca curva della strada, un doppio fascio di luci saettò per un istante. I suoi occhi, acquosi di lacrime mai più piante, spinsero la testa a seguirli e videro l’autobus arrancare afflitto, rumoroso e stanco anch’esso mentre spuntava dalla curva e gli veniva incontro.
A fatica, molto lentamente, dolendosi per ogni muscolo che entrava in azione tentò una prima volta di rialzarsi senza riuscire a vincere una spossante gravità; l’autobus sempre più vicino illuminò le fosse della via creando giochi d’ombra e saettanti statici movimenti che l’ipnotizzarono quel tanto sufficiente a rendergli quella vitalità forzuta che ne vinse la stanchezza; finalmente in piedi poggiò l’intero peso del corpo sulle mani e sul manico del bastone; allargò le gambe per trovare un equilibrio che forse non aveva mai avuto e poi sollevò il bastone di quel tanto da essere notato dall’autista.
Sorpreso il bus sembrò rallentare incrociando la fermata improvvisa ed imprevista e quello strano riparo in disuso di quello squallido quartiere; poi, sbandando leggermente sobbalzò una, due volte, mentre un sacco di stracci finiva sotto le ruote e rotolando martoriato pensava …

“ … stai sereno … stai sereno! … “.