Unicuique Suum - di Francesco Briganti

08.03.2015 07:44

“ Salve” gridò oltrepassando l’uscio semi aperto di casa Dellasini “ sono il tecnico della caldaia….. è qui che si patisce il freddo?”. Aveva avuto modo di imparare che un approccio ridanciano predisponeva benevolmente il prossimo, il quale poi, al momento di pagare, faceva buon viso al pessimo gioco legato alle sue esose parcelle.

Si fermò non avendo risposta. Grande lettore di libri gialli ed esperto della materia, sapeva che la violazione di domicilio è una cosa che rasenta lo stupro per cui decise di lanciare qualche altro “Salve! “di presentazione, anche se, con un tono via via meno convinto. Le sue profferte di saluto rimasero eco inascoltata ed ignorata in quella casa in cui anche il respiro risuonava come al teatro della Scala. Sempre più indeciso sul da farsi cominciò a ruotare su sé stesso guardandosi attorno: alla sua destra si apriva una scala verso piani superiori, alla sua sinistra un’ampia sala, stupidamente spezzata da una colonna centrale, faceva intuire un ambiente arredato con gusto e lusso in fondo al quale un’ampia porta finestra si spalancava su quello che si indovinava essere un patio antistante un giardino, al di là della balconata rami d’albero ondeggiavano nella brezza. Di fronte alla porta finestra, al altro capo della sala, una scala scendeva verso arcani sotterranei sui cui usi fantasie morbose accecarono la sua mente. Scosse le spalle e, passandosi la lingua sulle labbra, ignorò una vocina interiore che gli suggeriva di aspettare in giardino.

“Gran bella casa” pensò aumentando di un quindici per cento il suo già caro diritto di chiamata, “ qui se gioco bene le mie carte, mi pago le ferie di ferragosto…..”. Perso in altre fantasticherie, questa volta di sapore marinaro, quasi senza accorgersene si immobilizzò, colto da paralisi psico-motoria: un ringhio sordo e profondo, mentre gli si arrampicava sulla schiena e gli attanagliava cuore e corde vocali e cervello e fegato, studiò subdolamente e vergognosamente e contemporaneamente come fargli perdere il controllo di ogni sfintere possibile. “Tutto, ma un cane no”. Il pensiero trasportato da un brivido di puro odio gli scintillò nello spazio compreso tra le orecchie facendogli accapponare la pelle che già di suo non era bella a vedersi. Riuscì a finire la rotazione che aveva intrapreso e, segretamente sperando in un’allucinazione auditiva, spalancò gli occhi allo spettacolo che gli si parava davanti: inversamente proporzionale alla profondità del ringhio una specie di peluche alto si e no quanto una scatola di scarpe e grosso all’incirca quanto uno zoccolo del Dr. Schultz, tentava una difesa territoriale tanto improbabile quanto improponibile.

“Bastardo,” gli ringhiò di rimando, “i tuoi padroni pagheranno anche lo spavento che mi hai fatto prendere”. Il diritto di chiamata aumentò di un altro dieci per cento. Si inoltrò nella sala con alle calcagna il cane di Lilliput il quale, non riuscendo a spaventarlo, cercava subdolamente di farlo incespicare passandogli tra le gambe. All’ennesimo quasi riuscito tentativo, l’animale né ricavò una pedata che, per quanto lo cogliesse di striscio, lo mandò a spalmarsi a modo di soprammobile cinese, sul divano di fronte al mobile bar. Quasi a scusarsi per la perfidia verso l’animale, il nostro uomo ripeté più volte ancora il suo salve convenevole finché, non ricevendone risposta alcuna, si convinse di essere solo in casa. La circostanza prese a prudergli lungo le dita. Dovete, infatti, sapere che il mestiere di idraulico caldaista non era il frutto di un sano apprendistato giovanile, ma la risultanza di un corso teorico pratico cui aveva aderito nel mentre che fruiva di una vacanza gentilmente offertagli dallo stato in seguito alla sua riconosciuta attività lavorativa. La circostanza in cui, in una sola volta, la mattina della sua scarcerazione, era riuscito ad allagare tutti i locali docce e le cucine del carcere, rimarrà per sempre impressa nella memoria di coloro che ancora speravano di rivedere il responsabile dei liquami di ogni genere che, uscendo da ogni orifizio possibile, si erano mischiati con detersivi e cibarie provocando milioni di danni. Ma questa è un’altra storia!.

Continuando a guardarsi attorno aprì qualche cassetto, sbirciandone l’interno di alcuni, sollevandone il contenuto in altri, prelevando qualcosa da altri ancora. Cercando di farsi un idea circa la personalità dei padroni di casa, cominciò ad infilare piccole cose nella tasca nascosta della sua bisaccia da lavoro non trascurando di tanto in tanto di sbirciare verso il cane che, nel frattempo, aveva deciso di ignorarne l’esistenza limitandosi ad un ringhio tra il deluso e la triste consapevole pochezza. La casa, decise, meritava una ispezione più accurata, per cui, mettendo a frutto le sue passate esperienze, pospose in secondo piano la sua presenza da idraulico per procedere ad una perlustrazione conoscitiva tesa a future visite di losca finalità o anche, ove ne avesse avuto il tempo, che desse adito a dei prelievi tanto estemporanei quanto fruttuosi. Era certo che, a parte il cane, nessuno lo avesse visto arrivare: il suo furgoncino era parcheggiato a qualche centinaio di metri di distanza, quindi, se usciva inosservato come era entrato, tutto sarebbe andato bene. Già, ma se lo scoprivano in giro per la casa? “Niente paura”, si disse, avrebbe affermato, assumendo la più innocente delle espressioni del suo repertorio, che cercava solo di capire cosa stava succedendo in quella casa vuota e presso che abbandonata. Riprese a guardarsi attorno.

Quella sala aveva troppe aperture per contenere qualcosa d’importante, e del resto gente che esce lasciando aperte delle aperture che in mondo sano non dovrebbero rimanere aperte, non poteva essere così furba da destinare proprio quel locale quale sede di eventuali nascondigli: la sua esperienza gli suggerì di non perdervi altro tempo, si incamminò quindi su per le scale verso il piano superiore, senza accorgersi che il cane, ventre a terra, lo seguiva rimuginando sul momento migliore per azzannargli qualche parte molle e vendicare così il proprio onore ferito. La borsa dei ferri, a tracolla, gli premeva sul fianco facendoglielo dolere in modo insopportabile, sembrava quasi avesse deciso un connubio simbiotico con l’ala del suo fegato. Un primo gradino, il secondo, niente… quella maledetta borsa restava del tutto incurante del fatto che il fegato sembrava non gradire cotanta stretta confidenza e proprio mentre il nostro eroe si chinava in avanti per spostare la pinza a pappagallo, “accidenti agli animali” pensò “quale che sia il materiale di cui sono fatti”, il cane, intravista una zona libera da orpelli, che gli ricordava quella morbida del postino, scattò in avanti affondando i denti nella sua natica destra. La borsa seguendo l’improvviso inarcarsi del corpo abbandonò il fegato andando a stringere una relazione molto intima con il naso che festeggiò inondando il circostante della sua migliore riserva di rosso d’annata.

L’urlo di dolore, che avrebbe voluto uscirgli di gola, trovò un grosso impedimento nella gomma del ponte che viaggiava tra i suoi denti la quale, inopinatamente, aveva deciso di ridiscendere verso lidi più profondi quali le sue corde vocali e la sua trachea. Il respiro ne venne bloccato facendogli strabuzzare gli occhi per l’improvvisa mancanza d’aria, le sue narici si allargarono alla disperata ricerca d’ossigeno e le sue orecchie nel giro di qualche secondo si riempirono di un fischio che si incamminò verso vetta Decibel, la più alta, provocando, così, l’invidia del cuore che puntò verso la stessa vetta cercando di uscire attraverso la gola. “E’ finita” riuscì a pensare un attimo prima di raccomandarsi l’anima a qualche ignoto santo protettore di ogni appena decente malfattore. Nel frattempo, il cane, lasciata la presa, conscio del detto che un ferro va battuto nel mentre che è caldo e perciò deciso a finirlo, gli si lanciò di nuovo contro atterrandogli sulla pancia e rimbalzandone contro il muro dove rimase, ancora una volta annichilito, quale disarticolato simulacro di tanto pretenziose quanto fittizie glorie. L’effetto sull’uomo fu che gli intestini vennero sospinti, in direzioni opposte, verso l’alto ed il basso spingendo fin giù ai talloni un apparato che non era mai stato motivo di vanti particolari e verso le alte vie respiratorie i polmoni che, raggiunto il cuore, lo spinsero ancora più su facendogli fare leva sulla gomma che a guisa di missile Cruise venne lanciata al di fuori della bocca andandosi a spiaccicare sul naso del vescovo, antenato a dare lustro alla famiglia, in pompa magna appeso, nel quadro che lo ritraeva, nel bel mezzo del pianerottolo della scale.

L’aria che penetrò violenta a riequilibrare la depressione creatasi, risistemò a casaccio gli organi dell’uomo che con un rantolo da maniaco sessuale al telefono con una ignara verginella in speranzoso ascolto, riprese a respirare tra diecimila aghi che gli trafiggevano ognuna delle cellule del cervello. Il cane resosi conto di aver fallita un’altra occasione decise di defilarsi, coda fra le gambe, arrancando sul pianerottolo sovrastante per poi nascondersi fra gli zoccoli dei suoi padroni. Il sedicente idraulico, già carcerato, ora smarrito Maiorca in apnea profonda, riacquistò lentamente la sua lucidità. Attimi di pura frustrante paura di una fine imminente gli avevano fatto passare davanti gli occhi tutta la sua vita passata: da quando giovanissimo era incappato in un ragazzino grosso il doppio che gli aveva fatto capire, molto chiaramente, quanto tenesse alla sua bicicletta fino al momento in cui, a seguito di un maldestro tentativo di scippare un non vedente suonatore di violino, che poi cieco non doveva esserlo affatto vista la precisione con la quale lo aveva ripetutamente colpito con il suo strumento, le forze dell’ordine impersonate nel frangente da un cane poliziotto, maledetti animali!, non lo avevano assicurato alla giustizia per un periodo variabile “tra i sei e i dodici mesi in relazione al suo comportamento nel luogo di detenzione….”. “… Credo che Lei non uscirà tanto presto” aveva concluso, guardandolo con un fare da mastino, il giudice Volpi a presiedere.

Si rialzò a fatica, guardò in su verso il pianerottolo, poi in giù verso la porta d’ingresso, la convinzione di non essere in un momento favorevole aveva, oramai, cominciato a far capolino nella sua mente. Incrociò lo sguardo del vescovo che, con la gomma da masticare appiccicata sul naso, sembrava suggerirgli una più accorta gestione della faccenda: riguardò in giù e riguardò in su quindi riguardò anche il vescovo che adesso aveva proprio assunto l’aria di chi dice “Ah, ma allora sei proprio scemo” e, finalmente, lui che era un fervido rispettoso dell’abito talare, zoppicando e con il fegato, il naso, la gola ed i testicoli che gli facevano un male cane, maledetti animali!, ridiscese le scale verso l’uscita: una pinza a becco d’anatra conficcata nel cavallo dei pantaloni gli ricordò tutta la sua sfortuna. La lasciò dove era quale cilicio e a futura memoria. Anche il cane aveva, nel frattempo, riacquistata la sua lucidità. Certo, il colpo di rimbalzo contro il muro era stato forte, ma se non altro aveva pareggiato il primo smacco subito, si sentì di nuovo battagliero e, perciò, con fare circospetto, gradino dopo gradino, annusando di tanto in tanto l’aria, ridiscese le scale sulle tracce di quel invasore che poi, in fin dei conti, gli sembrava molto più fesso del postino: giurò sul osso più bello che aveva nascosto dove solo lui sapeva, giù nel cantinato, che nessuno l’avrebbe fatta da padrone nel suo territorio. Oramai sul uscio dell’abitazione non riusciva a risolversi ad andare via. Diamine, possibile che doveva essere così sfortunato, “ed incapace” confessò a sé stesso, da non ricavarne nemmeno il guadagno per il lavoro che era stato chiamato a fare? “Aspetto i padroni” si disse “No, meglio, mi faccio trovare al lavoro sulla loro caldaia e poi gli racconto dell’aggressione del cane e raddoppio il prezzo dell’intervento; si, farò così!“ e rassicuratosi, riacquistata una certa fierezza di portamento, spostata la pinza a becco, rigirò le spalle alla porta in cerca del locale caldaie. Si avviò verso il seminterrato deciso a scendere le scale che, sicuramente, lo avrebbero portato lì dove avrebbe dovuto essere, in un mondo sano, in un mondo normale, in una casa senza cani, la caldaia. Lupus in fabula il cane, al principio delle scale, sporse la testa affacciandosi dal bordo del quel primo fatidico gradino: l’invasore non era in vista, ma ne sentiva ancora l’odore. Ne seguì la traccia olfattiva dirigendosi anch’esso verso il seminterrato. L’uomo era ormai già a metà della discesa quando il cane, ormai preoccupato anche per il suo osso, giunto sul fare del primo gradino, spinto da un orgoglio narcisista profondo e consapevole, gli si lanciò addosso colpendolo, con tutta la sua presenza, in mezzo alle scapole venendo così a minare definitivamente un già compromesso equilibrio. Una frazione di secondo dopo, quattro zampe quattro, due gambe due, due braccia due, due teste due, una borsa una piena di chiavi di ogni nazionalità, ma prevalentemente inglesi, fecero a gara nell’alternarsi a scendere gradino dopo gradino fino al pavimento in cemento dell’impiantito che accolse tutto e tutti nel clamore festoso dei kling.klang, bum bum, ohi ahi, abbaia mordi, urlo con sganassone, ringhio con guaito, e patatrunfranglangt finale sullo sportello della caldaia. Nemmeno a Città del Messico nella notte dedicata alla Santa Vergine di Guadalupe si erano mai sentite tante e così festose e così folcloristiche manifestazioni sonore.

Lo sportello della caldaia, sradicato dai suoi cardini ondeggiò un attimo poi si abbatté sulle loro teste, dando il colpo di grazia all’uomo ed all’animale rivelando essere in realtà la copertura di una nascosta cassaforte. Seguì un profondo silenzio che avrebbe fatto invidia alla migliore verve di Simon and Garfunkle .

“Fuffi…!, Fuffii…?!, Fuuffii….?!?”

La della donna risuonò per l’acustica della casa risvegliando in tutti quelli che poterono sentirla le più svariate sensazioni. Nel suo crescendo di ansia e preoccupazione trasmise al cane, finito nella borsa a subire le avance della pinza a pappagallo, una speranza di prossima liberazione ed all’uomo, sottomesso al peso di uno sportello di caldaia marca “Albatros” la certezza che il mondo animale aveva contro di lui un che di trascendente.

Tempo dopo, mentre il cane veniva amorevolmente coccolato dai suoi padroni, l’uomo non ebbe il coraggio di guardare negli occhi il pastore tedesco che al guinzaglio di un carabiniere alitava sul suo viso semi incosciente ed ammanettato. “Lo sapevo che sarebbe ritornato…” gli disse il giudice Carmine Leone, nell’ aprire l’udienza che lo riguardava. Per niente commosso dalle lacrime che riempivano gli occhi del nostro eroe, continuava a guardarlo in cagnesco ed a ripetere tra sé “…. Attaccare una gomma da masticare sul naso di un ministro di Dio, che vergogna…” Pianse per tutto il processo e piangeva ancora quando, all’ingresso del carcere, il nostro eroe trovò ad accoglierlo l’intero staff delle cucine deciso a dimostrargli

quanto ognuno fosse contento del suo ritorno.